Il ritorno del campione

Vittorio Aliberti – detto Vittorino o anche Alì Babà, come l’avevano ribattezzato la Gazzetta e il Corriere dello Sport – era stato la più forte ala sinistra granata dai tempi del Grande Torino, probabilmente l’unico giocatore che avesse mai davvero meritato quel mitico soprannome: “Pendolino”, per l’ostinata costanza con cui macinava chilometri sulla fascia di competenza. Avanti e indietro, avanti e indietro, per tutti e santissimi i novanta minuti di gioco. Immenso per i suoi dribbling e le sue finte. Segnava e faceva segnare. Ingannava frotte di terzini e diventò ben presto l’idolo dello Stadio Olimpico.

Nel novembre dell’anno scorso, però, – poco prima dell’esordio in Nazionale contro la Bielorussia – un tremendo volo in macchina sotto la pioggia mise fine alla sua lanciatissima carriera a soli 23 anni. La città sprofondò di colpo nella depressione più nera. Ci furono solenni funerali e bandiere a mezz’asta in tutti gli uffici pubblici e i bar dello sport. L’Arcivescovo di Torino in persona, Monsignor Andrea Bruno Peri – con la sciarpa granata al posto della stola viola – recitò un’omelia struggente e la bara fu portata a braccia per tutto Corso Garibaldi dai compagni di squadra e da un paio di ultras tirati a sorte tra le migliaia che avevano fatto domanda. La squadra, d’altro canto, non si riprese più da quella botta, e colò a picco in classifica, salvandosi dalla retrocessione in serie B solo alla penultima giornata.

Intanto, all’inizio dell’anno nuovo, dopo la tradizionale sosta natalizia del campionato, i tifosi della Boys Caivanese – formazione campana di Eccellenza – si accorsero subito della strana rassomiglianza con la buonanima di Vittorio Aliberti, del loro nuovo esterno Zoran Jovanović, un regalo di Natale della società gialloverde per raddrizzare un campionato cominciato in sordina.

Dopo qualche perplessità iniziale, però, i supporters caivanesi – rassicurati dal loro Presidente Paolo Aceto e, soprattutto, dal nuovo allenatore Bansè Mhuasè, primo tecnico di origine nigeriana ad allenare una squadra in Italia – decisero di non approfondire seriamente la questione.

Anche perché – come si ragionava spesso nelle serate d’inverno al Bar Boys – Aliberti, Dio l’abbia in gloria, era siciliano di padre e torinese di madre, mentre Zoran Jovanović era stato acquistato durante il mercato invernale di riparazione direttamente dall’ex Jugoslavia, dove pare giocasse in una non meglio precisata squadra di serie B serba.

E poi – e questo tagliava la testa al toro – il compianto esterno granata era mancino, mentre il loro Zoran tirava delle cannonate col piede destro da far tremare la traversa. L’aveva imparato a sue spese, purtroppo, Pasquale Mezzacapo – il giovane portiere della formazione Juniores – durante le partitelle a ranghi misti del giovedì pomeriggio.

Zoran era solitario e taciturno e – in quasi due mesi a Caivano – non era riuscito a legare con nessuno. Nemmeno coi compagni di squadra, con cui continuava a farsi capire a gesti e strani versi gutturali. “Sarà un problema di lingua…”, si dicevano costernati i tifosi, che intanto avevano imparato a conoscerlo e volergli bene, soprattutto dopo due assist e un gol in rovesciata nel derby casalingo con l’Ercolanese. Arrivava allo stadio col Mister, tutti i pomeriggi, e tutti i pomeriggi con lui se ne tornava a casa.

Qualcuno sospettava addirittura che Mister Mhuasè – a dispetto della famigerata virilità degli africani – fosse ricchione e che Zoran si fosse guadagnato tra le lenzuola il suo inamovibile posto in squadra.

Le cose cambiarono, però, quando – su diretto interessamento del Mister – a fine febbraio arrivarono dalla Serbia altri due giocatori: Marković, attaccante ventisettenne, e Borislav, difensore centrale. E poco importava se Marković fosse il ritratto sputato del figlio di un carrozziere di Sant’Antimo con l’hobby del calcetto, tale Cosimino Cecere, sorpreso dal marito della salumiera nel retrobottega e ucciso con una martellata in testa mentre ancora le stava attaccato dietro, e se Borislav, col suo fisico grosso e tozzo, e una cicatrice mal suturata sopra l’occhio destro (il Mister sosteneva fosse un ricordino lasciatogli da un soldato durante la guerra nei Balcani) sembrasse più un camionista scampato a un incidente stradale, che non un calciatore professionista.

L’importante, comunque, era che i tre – tra di loro – andavano d’amore e d’accordo, che in campo erano praticamente inarrestabili, che non sentivano né fatica né dolore, per quanto gli avversari picchiassero duro e che, da quando erano arrivati, la squadra vinceva tutte le partite. Se fosse andata avanti così – dicevano tutti a Caivano – avrebbero superato di sicuro i play-off per andare in serie D.

I pronostici furono pienamente rispettati: la Boys Caivanese – guidata da Capitan Zoran e compagni – continuò la sua marcia trionfale fino a maggio inoltrato, recuperando a passo di corsa il gap di inizio campionato. Mister Mhuasè aveva fatto il miracolo, riportando i colori gialloverdi nell’Olimpo del calcio che conta, e questo gli faceva perfino perdonare quei ridicoli camicioni fiorati che si metteva in panchina al posto della consueta tuta da ginnastica, e, poi, quella sua mania di girare di notte – l’aveva visto pure Peppino Copertone, il gommista del paese – nelle stradine attorno al cimitero di Casandrino… (il che, comunque, rafforzava nei tifosi caivanesi l’idea che il Mister, ahilui!, fosse ricchione, e che quella zona di campagna fosse, in realtà, un luogo di ritrovo gay!).

All’inizio di giugno, comunque, i gialloverdi erano secondi in classifica, e un punto soltanto, oramai, li separava dalla Dinamo Grazzanise e dalla possibilità di giocarsi ai play-off la promozione in serie D.

La seconda domenica di giugno, perciò – all’ultima giornata di campionato – li aspettava la sfida decisiva, quella del dentro o fuori: i ragazzi della Boys Caivanese avrebbero dovuto giocarsi il tutto per tutto nello scontro diretto proprio contro la capolista Grazzanise. Chi vinceva passava alla fase finale del torneo, chi perdeva era condannato a un altro anno di purgatorio in Eccellenza.

La Caivanese giocava, però, in trasferta e la città – in vista del match esterno – era già in fibrillazione da settimane. Erano stati affittati tutti i pullman disponibili e il paese in massa – donne, vecchi e bambini compresi – sarebbe emigrato a Grazzanise in quel caldo pomeriggio domenicale: il momento era topico, e i tifosi non potevano certo far mancare il loro sostegno alla squadra del cuore in un frangente così importante e delicato.

Gli ultras gialloverdi avevano passato tutto il sabato precedente in preda ad una sorta di euforia pre-partita, organizzando la carovana e preparando centinaia di metri di striscioni gialloverdi da tappezzarci tutta la superstrada Nola-Villa Literno, da casello a casello. Anche l’allenatore – nonostante non lo desse a vedere – sembrava nervoso. Magari sentiva pure lui, che di solito era così calmo e sicuro di sé, si direbbe quasi ascetico, il peso della responsabilità. Come tutti i sabati, però, arrivò al campo alle dieci in punto, per la solita rifinitura dove mettere a punto gli ultimi moduli e schemi per l’indomani.

L’allenamento si svolse regolarmente, poi – a mezzogiorno preciso – il tecnico si caricò Jovanović, Marković e Borislav nella vecchia Fiat Croma che gli aveva regalato il Presidente Aceto per non farlo venire a piedi allo stadio, e nessuno li rivide più fino all’indomani mattina, quando – in testa alla carovana di pullman e di macchine – partirono assieme alla squadra da Caivano alla volta di Grazzanise.

Come ogni domenica mattina, prima della partita, staff tecnico e giocatori si fermarono al Ristorante Le Ninfee di Volla per il pranzo: pastasciutta, bistecca ai ferri con insalata e crostata di frutta. Tutti tranne – come al solito – Jovanović, Marković e Borislav, che, diceva l’allenatore, ancora non si erano abituati al cibo italiano, e continuavano a portarsi il mangiare da casa, in un grosso borsone nero, da cui il Mister non si separava mai. Aveva paura – diceva serio – che i magazzinieri avversari lo avvelenassero col Guttalax, e che fosse così costretto a rinunciare ai suoi tre gioielli. Avrebbero mangiato qualcosina dopo, negli spogliatoi, prima della partita. Una cosa leggera, giusto per avere la carica giusta per affrontare i novanta minuti.

Quello che Mister Mhuasè non sapeva, però, era che la Questura di Caserta – allertata dalla Lega Calcio – aveva predisposto un imponente servizio d’ordine in occasione dell’evento sportivo. Erano stati mobilitati più di cento uomini, tra Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza e il Grazzanise, da parte sua, per impedire l’ingresso in campo di mazze ferrate, granate e bombe carta, aveva ingaggiato 25 stuart, incaricati di perquisire tutte le borse e borsoni. L’allenatore, perciò, reagì con stizza e sorpresa quando due bestioni di due metri, con braccia grosse come prosciutti, gli strapparono di mano la borsa nera col cibo dei serbi.

“Mangiare, paisà… Mangiare!!”, strepitò l’allenatore cercando di riprendersela, ma due carabinieri in divisa lo bloccarono facendogli intendere che era meglio se mollava l’osso.

Dal borsone proveniva un forte odore di uova marce, amplificato dall’afa del periodo estivo. “Certo che ne mangiano di schifezze in Serbia!”, rise un carabiniere di Succivo aprendo la zip.

Immediatamente un odore nauseabondo di carne dolciastra investì le narici dei presenti, che furono costretti a turarsi il naso. Uno dei due stuart si chinò in un angolo e vomitò tutta la pasta a forno che aveva mangiato dalla suocera. Mhuasè – come se fosse improvvisamente finito su di un altro pianeta – si limitò ad osservare la scena con lo sguardo perso nel vuoto.

Passato un attimo di iniziale smarrimento, gli sbirri presenti si infilarono i guanti di gomma in dotazione ed iniziarono a setacciare la borsa, tirando fuori, nell’ordine: due mani sinistre, una tibia completa di polpaccio, una testa bionda, tre cuori e dodici metri di intestino.

Mister Mhuasè fu accusato su due piedi di essere il famigerato Killer dell’autostrada, quello che – negli ultimi quattro mesi – aveva fatto fuori almeno mezza dozzina di autostoppisti sul raccordo Napoli-Caserta Sud, e fu trascinato di peso in Caserma.

Visto, però, che non c’erano prove della complicità nei delitti degli altri calciatori, tantomeno dei tre slavi, che a malapena capivano l’italiano, la squadra fu spedita negli spogliatoi, e – in panchina – fu mandato l’allenatore in seconda Ezio Casaccio.

Anche perché, con almeno quattromila persone urlanti assiepate sugli spalti, il solo tentativo di rinviare la partita avrebbe potuto far scoppiare una rivolta dagli effetti imprevedibili e devastanti.

Casaccio – che fino all’anno prima aveva seguito al massimo i pulcini – passò i suoi primi dieci minuti da allenatore della Caivanese nel bagno dello spogliatoio: un devastante attacco di colite lo prosciugò come una prugna secca. Ripresosi, si diede una sciacquata alla faccia, e tenne a rapporto i giocatori, cercando di improvvisare un bel discorsetto di incoraggiamento. Diede una pacca sulla spalla agli slavi, che grugnirono stizziti, distribuì le maglie e spedì i titolari in campo per la fase di riscaldamento e la partita.

Il primo tempo non si dimostrò certo avido di emozioni. La capolista impiegò meno di dieci minuti per sbloccare la gara.

Coppola – Il Puma di Afragola – dalla destra imbroccò un cross basso per il bomber di casa Giannini che, lasciato colpevolmente solo, poté battere il portiere di tacco.

Tutto anche troppo semplice per la Dinamo Grazzanise, che, passata subito in vantaggio, iniziò già a pregustare la goleada. Del resto, sotto di un gol, la Caivanese – che pure aveva avuto un buon approccio alla sfida – si intimidì e rinunciò a pungere i padroni di casa.

Casaccio, dal canto suo, cercava di fare quel che poteva, ma senza le illuminanti decisioni del tecnico Mhuasè, la squadra non riusciva a riprendersi in mano il centrocampo e iniziò a soffrire molto i movimenti fra le linee dei tre trequartisti del Grazzanise. Ma, come cantava De Gregori, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia…”, e allora ecco che Zoran – con ghigno crudele – dopo un’involata sulla fascia destra, si inventò un tiro potentissimo da fuori area che s’insaccò miracolosamente sotto l’incrocio dei pali: era l’1-1.

La Curva B esplose. Un paio di signore, forse per il caldo, forse per l’emozione, dovettero essere portate via in ambulanza.

Poi, la partita si impantanò di nuovo, e venne il momento del riposo.

Le formazioni rientrarono negli spogliatoi e Casaccio – vestite a pieno titolo le vesti di allenatore – strigliò la sua squadra in maniera memorabile. Era così preso e convinto che nemmeno si accorse che i tre slavi non lo stavano ascoltando, e saltavano da una parte all’altra dello spogliatoio alla ricerca della loro borsa nera, come mosche sotto un bicchiere. Mastro Raffaele, il magazziniere e fac-totum, pensò, allora, a un calo degli zuccheri e gli offrì premurosamente una barretta proteica e una bottiglietta di thé, che i tre stranieri rifiutarono con un ringhio.

Alla fine dell’intervallo, l’allenatore concluse il suo vibrante sermone alzando in aria i pugni: “Andate e magnataville!!”, esclamò spalancando la porta dello spogliatoio.

Jovanović, Marković e Borislav – che qualche parola di italiano in tanti mesi l’avevano pure imparata – si guardarono sorpresi. Poi, una luce sinistra si accese nel loro sguardo.

Il discorsetto di Casaccio, comunque, ebbe l’effetto sperato. La squadra gialloverde rientrò in campo come trasformata. Giocò i primi 20 minuti della ripresa con il cuore e con la grinta. Poi, al 23′, il dramma: ancora una volta Il Puma riuscì a superare in velocità Borislav, che, perciò, non poté fare a meno di atterrarlo in area di rigore: per l’arbitro, l’inflessibile signor Russo di Francolise, non ci furono dubbi, era calcio di rigore.

Sul dischetto fece per piazzarsi il bomber di casa Giannini, più che mai deciso a chiudere il campionato a venti gol: cifra tonda. Però, quando indietreggiò di tre passi per prendere la rincorsa, l’attaccante del Grazzanise si sentì urtare contro qualcosa di granitico. Si voltò e si ritrovò davanti gli occhi rossi di Borislav: dal suo stomaco proveniva un rombo sordo come quello di un aereo a reazione.

Giannini non ebbe nemmeno il tempo di chiedere all’arbitro il rispetto della distanza regolamentare, che il difensore serbo gli si era già attaccato al collo sferrandogli un morso più potente di un pit-bull da combattimento. Poi – trascinandolo per un piede – guadagnò di corsa la propria panchina, si sedette, e iniziò a divorarselo con calma, tra gli ultimi spasmi di vita dell’attaccante, che dovette così rinunciare per sempre al suo sogno dei venti gol in un solo campionato.

L’arbitro Russo – dopo un attimo di iniziale smarrimento – portò il fischietto alle labbra per chiamare il fallo ed espellere il difensore della Caivanese per gioco pericoloso, ma anche lui non fece in tempo a soffiarci dentro, che Zoran, con un morso, gli staccò metà della calotta cranica, e iniziò a succhiargli il cervello come fosse un frappè alla fragola. E mentre anche Marković si unì al banchetto, addentando la caviglia del portiere avversario, il panico scoppiò dentro e fuori dal campo, con un fuggi fuggi generale, che fece ancora più danni dei tre affamati giocatori serbi, con almeno venti morti – di cui dodici sbranati vivi – e una cinquantina di contusi e feriti più o meno gravi.

Alla fine, le Autorità – sigillato lo Stadio Comunale di Grazzanise – dovettero chiamare in tutta fretta uno specialista da Buffalora, vicino Brescia, per eliminare definitivamente – e sottolinearono definitivamente due volte nel contratto di ingaggio – i tre giocatori serbi.

Il Mister Bansè Mhuasè, da parte sua, fu incarcerato e accusato di omicidio volontario, vilipendio di cadavere e resurrezione non autorizzata.

Si scoprì, infatti, che l’allenatore, in Africa, era in realtà il nipote del più potente Stregone di Benin City, e che proprio il nonno lo aveva iniziato fin da piccolo ai misteri del Voodoo e della Magia Nera, oltre che all’amore per il calcio.

Arrivato in Italia come lavoratore agricolo – dopo qualche mese trascorso a raccogliere pomodori – aveva conosciuto in un bar il Presidente della Boys Caivanese Paolo Aceto, che, in un attimo di scoraggiamento, gli aveva parlato della crisi in Italia, dei suoi problemi economici, delle difficoltà, oggigiorno, di allestire una squadra di categoria, anche in una serie piccola come l’Eccellenza. “Con quello che si fanno pagare, poi, questi giocatori! Anche se non valgono una pippa!”, aveva esclamato. Non ce l’avrebbe mai fatta a vincere il campionato. Nemmeno tra cent’anni!

Era il giorno dopo il funerale del povero Vittorio Aliberti. La sua foto sorridente torreggiava in prima pagina.

“Che ne direste, presidente, di uno come lui?!”, chiese Mhuasè, indicando il giornale aperto sul tavolino di resina.

Aceto lo guardò perplesso, poi scoppiò a ridere: “Non so come state messi voi a soldi in Africa, ma qua è un po’ diverso. Sai quanto gli voleva dare il Milan al Torino per Aliberti prima che morisse? Trentacinque milioni di euro.

Capito?! Trentacinque milioni!

Altro che Eccellenza…”

Sul volto di Mhuasè si dipinse, allora, un ghigno beffardo: “Il posto di allenatore della Boys Caivanese, mille e cinquecento euro al mese, più le spese, un biglietto aereo, e vi porto gratis un giocatore che è la fotocopia di Aliberti!”

Dopo la sorpresa iniziale, il Presidente Aceto accettò l’offerta dell’africano e i due si strinsero la mano: “Male che vada – pensò il primo dirigente – ci rimetto le spese…”

Bansè Mhuasè, però, tornò puntuale una settimana dopo – disse da Belgrado – dove era riuscito a mettere sotto contratto per i successivi cinque anni l’esterno destro della Hajduk Beogrado, Zoran Jovanović, praticamente a costo zero: un affare.

Così – con la benedizione del Presidente Aceto – il tecnico di colore prese il suo meritato posto in panchina.

Del resto, i documenti di Jovanović – per quanto scritti in incomprensibili caratteri cirillici – sembravano perfettamente regolari e autentici, e, infatti, il Comitato Regionale della Lega calcio, non fece problemi col tesseramento: Jovanović diventò a tutti gli effetti un giocatore della gloriosa Boys Caivanese!

Dopo la terribile carneficina di Grazzanise, però, il sospetto che sotto quella incredibile rassomiglianza con la buonanima di Vittorio Aliberti ci fosse qualcosa di losco, venne a più di un giornalista di radio e Tv, e alla fine le Autorità Comunali e Sportive decisero di aprire il monumento equestre che la città di Torino aveva innalzato in onore del giocatore granata dopo la sua prematura scomparsa.

Come oramai ci si aspettava, quando la bara fu tirata fuori dal suo alloggiamento e aperta davanti alle centinaia di fotografi e cameramen – non senza un pizzico di commozione – fu trovata inesorabilmente vuota. Fu fatto due più due e, allora, fu chiaro a tutti che Vittorio Aliberti, detto Vittorino, e Zoran Jovanović, erano, in realtà, la stessa (ex)persona.

Quando, perciò, il corpo del povero Vittorino – recuperato dallo Stadio Comunale di Grazzanise dopo che l’esperto di Buffalora ebbe finito il suo lavoro – fu riportato con grande emozione a Torino, in un carro funebre blindato dentro e fuori, questa volta fu deciso di murarlo in un blocco di cemento armato, e calarlo ai piedi del basamento di marmo.

D’altra parte, la perquisizione nella casa di Caivano del tecnico africano Mhuasè rivelò una stanza sul retro, con un piccolo altare Voodoo e uno stereo che continuava a trasmettere una musica assordante di tamburi e canto. Era il “palo”, la musica del Voodoo che aiutava il Bokor – il sacerdote – ad andare in trance.

Sopra due tavolacci di legno appaiati giacevano i corpi senza vita di altri due uomini e una donna, trafugati chissà dove. Ai loro piedi delle Govi: brocche di terracotta consacrate in cui venivano rinchiuse le anime dei morti.

Erano i due nuovi centrocampisti e la massaggiatrice, che il tecnico africano si stava apprestando a far “ritornare” – dopo Marković e Borislav – nel caso in cui la Caivanese avesse vinto il campionato e fosse stata promossa in serie D.

A pensarci, un affare niente male, anche per il Presidente Aceto: i giocatori che il mister resuscitava, infatti, non erano iscritti all’Assocalciatori, non percepivano stipendio, né percentuale sulle sponsorizzazioni, non perdevano tempo appresso a Veline e puttanelle varie e, in più, in campo erano forti e duri come il granito.

L’unico, vero problema era che – come nella migliore tradizione – gli zombies-calciatori si nutrivano esclusivamente di carne umana che, per la maggior parte, Mister Mhuasè riusciva a procurarsi di straforo, durante le sue scorribande notturne per i cimiteri della zona. Altre volte, invece, quando la sarda era secca, doveva provvedere diversamente, caricandosi qualche autostoppista in autostrada, che poi pensava personalmente a razionare per i suoi giocatori a colpi di macete. Un caro ricordo, anche quello, del nonno morto in Nigeria.

Infine, nel corso della perquisizione a casa dell’allenatore – sopra una piccola scrivania in un lato della Stanza Sacra – una frase sottolineata a penna, sul GRANDE LIBRO DEL VOODOO, attirò l’attenzione degli investigatori: “I “ritornanti” – diceva il manuale rilegato in pelle nera – vivono una vita speculare a quella precedente, per cui chi preferiva il dolce, si scopre amante del salato, a chi piacevano le tette piccole, iniziano a piacere quelle grandi, e i mancini si trasformano in destrorsi…”. Di qui le legnate che Zoran tirava col piede destro, mentre il povero Vittorino Aliberti, in vita, era stato un mancino.

Mistero svelato.

Per la cronaca – dopo la domenica più brutta e sanguinolenta che il calcio dilettantistico avesse mai conosciuto – la Lega Calcio assegnò alla Dinamo Grazzanise la vittoria 3-0 a tavolino e la squadra casertana, rimpiazzato il portiere e un altro paio di difensori, conquistò ai play-off contro il Napoli Sanità, l’agognata promozione in serie D.

La Boys Caivanese, invece, fu messa in liquidazione dal Presidente Aceto, che – schivati per un soffio i guai giudiziari (si giustificò, come al solito, sostenendo che l’allenatore africano avesse agito “a sua insaputa” e che lui non sapesse niente, né del Voodoo, né della falsificazione dei passaporti…) – non volle più saperne di fare calcio, e l’anno successivo – dopo oltre 70 anni – per la prima volta nella sua storia, la squadra gialloverde non fu iscritta a nessun campionato.