Sbarre di vetro

closed bars

Si svegliò di colpo, madido di sudore sulla fronte e sugli occhi.

Inspirò a fondo.

Una, due volte, riempiendosi i polmoni con l’aria buia della stanza. Sbuffò e accese una lampada a forma di unicorno rosa che teneva sul comodino. La luce gli fece bene e il respiro tornò regolare.

Si asciugò gli occhi con la manica del pigiama.

Un alone scuro gli ricoprì il polsino.

Cristo Santo: di nuovo.

Aveva sognato di nuovo quel volto appannato, velato da una tenda bianca, con le orbite infossate e l’ombra della bocca orribilmente spalancata.

Terribile come un presagio.

Sbuffò ancora.

Era la terza volta in due notti.

Chi era quell’uomo?

E perché la cosa lo spaventava così tanto?

Neanche riusciva più a dormire…

Che poi, quando mai aveva sofferto d’insonnia, lui?!

Mai.

Mai!

Nemmeno quando – giovanissimo agente di custodia – l’avevano trasferito dalla Casa Circondariale di Novara, dove era nato e dove ancora vivevano i suoi anziani genitori, all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, che lì davvero c’era da non chiudere occhio, con le urla dei pazienti, o meglio, degli internati, come sta scritto nel regolamento a caratteri cubitali, nero su bianco.

Che poi – se proprio vogliamo dirla tutta – sempre detenuti sono.

Imbottiti di pillole, ma comunque detenuti.

In ogni caso, quelli là sì che gridavano forte: giorno e notte, notte e giorno.

Una continuazione!

Improperi, bestemmie, preghiere.

Di tutto!

Eppure, nei due anni che aveva prestato servizio in quell’inferno, aveva imparato a mettere la testa sotto il cuscino e dormire le sue otto ore di fila.

Tutte le notti.

E quando era finito a Santa Maria Capua Vetere?

Là pure, non si chiudeva occhio: c’era da controllare il contrabbando cella a cella. Di cocaina, di eroina, di armi costruite con le forchette… di telefonini, per mandare all’esterno ordini e imbasciate.

E allora vai con le perquisizioni: alle due, alle tre, alle quattro di notte, quando tutti dormivano o – almeno – facevano finta.

Da perderci la testa, insomma, oltre che il sonno.

E invece, pure lì, tutto bene.

Finito il servizio, si sfilava la divisa, agganciava il cappello ad un chiodo, e si buttava dritto nella sua branda, al piano di sotto.

Invece – da almeno una settimana che era arrivato a Carinola – aveva smesso di dormire.

Carinola: un buco di carcere!

Quattro mura, un mucchietto di sbarre arrugginite e un paio di centinaia di detenuti.

Che c’era di così strano?

Doveva essere una passeggiata per lui. Una specie di vacanza premio, per riposarsi un po’, dopo gli ultimi anni passati in un ambiente duro e difficile come quello di Poggioreale, dov’era stato spedito – dopo l’esperienza sammaritana – con una mezza promozione a Sovrintendente, che a lui era tanto sembrata un contentino per tenerselo buono.

Così, dopo più di dieci anni passati a spaccarsi il culo in quella bolgia, finalmente, quelli del Dipartimento avevano deciso di mandarlo nel carcere più piccolo e tranquillo che ci fosse in zona. Dove non c’erano rivolte, non scoppiavano risse e non succedeva mai nulla.

Nulla.

A parte, forse, quei due suicidi di cui gli aveva parlato un collega di Poggioreale, quando lo aveva informato del suo imminente trasferimento.

Gerardo – gli aveva detto per tranquillizzarlo il suo nuovo superiore, l’Ispettore Mancino, a cui aveva chiesto conto di quelle voci appena preso servizio a Carinola – sono cose che possono succedere qui dentro.

C’è chi proprio non lo regge, il carcere”, aveva chiosato, scuotendo la grossa testa sotto il berretto.

Che – poi – c’era da dargli ragione.

Quanti ne aveva visti, di omoni grandi e grossi come armadi, singhiozzare da soli, nel buio della cella, come bambini smarriti al supermercato. Nuovi arrivati dare di matto dopo solo un paio di giorni che il portone gli si era chiuso dietro la schiena, e tirare testate al muro come mufloni.

Ai voglia!

Però, beh, di gente appesa alle sbarre della cella con una cinghia – in tanti anni di servizio – quella non gli era mai capitata.

Che poi, fosse la cinghia!

Erano strani i suicidi di Carinola…

Proprio strani.

Uno – un ghanese di venticinque anni – l’avevano trovato stecchito sulla branda, imbottito di eroina come una penna stilografica.

Nulla di strano, un’overdose, si sarebbe detto.

Se non che – prima di tirare le cuoia – il ragazzo si era aperto la pancia con un coltello rubato a mensa, e si era messo a giocare con le sue budella, srotolandole tutte sul pavimento.

Suicidio?!

Suicidio, assolutamente.

Perché il nero – quando aveva deciso di farla finita – era da solo, sigillato in una cella di isolamento, perché appena entrato aveva iniziato subito a dare di matto, dicendo di essere il nuovo Gesù.

Cosa non ti fa dire l’eroina!

Kodjo – così si chiamava – era arrivato a Carinola il giorno precedente, dopo una convalida per rapina. Lo avevano beccato i Carabinieri nemmeno venti minuti dopo aver fregato la pensione a una vecchina minacciando di tagliarle la testa con un’ascia.

Quando l’avevano fermato, se ne stava al parco, seduto su una panchina. Teneva l’accetta in una mano e una birra doppio malto nell’altra.

Sembrava compiaciuto.

Beh, un po’ fuori di testa – magari – doveva esserlo stato anche prima di arrivare lì dentro.

L’altro a lasciarci le penne, in quel piccolo carcere vicino al mare, era stato un barbone: lo chiamavano Caccola.

Viveva di elemosina e dormiva tra i Giardinetti e la stazione di Caserta.

Una mattina d’inverno, l’anno prima, era andato davanti alla Questura, in piazza Vanvitelli, e si era messo a pisciare sulle aiuole. Quando il piantone s’era avvicinato per cacciarlo via, si era messo a fare il diavolo a quattro, spintonandolo e urlandogliene contro di tutti i colori.

Alla fine l’avevano arrestato per resistenza e sbattuto in carcere con una condanna a sei mesi senza pena sospesa per via dei precedenti.

C’era durato anche lui soltanto un paio di giorni.

L’avevano trovato durante l’ora d’aria in un angolo del cortile, che gorgogliava qualcosa di incomprensibile mentre una schiuma rossastra di bava e sangue gli zampillava dalla bocca.

Il dottore dell’infermeria aveva fatto di tutto per salvarlo, ma le lamette che aveva ingoiato gli avevano perforato lo stomaco e un tratto di intestino.

Alla fine, c’era mancato poco che avevano dovuto passarlo sotto una macchina per ricucirlo tutto e restituirlo ai parenti in Svizzera.

Gerardo si alzò dal letto.

Fuori era ancora buio.

Aveva dormito solo tre ore negli ultimi due giorni e si sentiva un chiodo a pressione infilato dritto in mezzo agli occhi.

Andò in bagno.

Lo specchio rimandava la sua immagine frustrata, le occhiaie e i capelli arruffati sulla testa.

Si sciacquò la faccia per cercare un po’ di sollievo.

Prese il pettine dall’armadietto, lo passò sotto il rubinetto e si sistemò i capelli, scolpendo la solita fila a sinistra.

Si infilò la divisa sulla camicia celeste e scese giù allo spaccio per fare colazione.

Al bar non c’era nessuno.

Il collega che di solito si occupava del caffè, non era ancora arrivato.

Guardò l’orologio: “Ci credo – pensò sconfortato – non sono ancora le sei!”.

Troppo presto per cominciare a lavorare, troppo tardi per tornare a dormire.

Ma almeno un caffè!”, sbottò contrariato.

Girò attorno al bancone: la macchina a pressione era per lui pressoché incomprensibile. Una serie infinita di bottoni e manopole e il rischio di far saltare in aria tutta un’ala del carcere.

Si ricordò allora di aver visto un distributore automatico, al piano terra, vicino al parlatorio.

Meglio di niente…”, pensò.

Non avrebbe resistito a lungo senza almeno un caffè.

Uscì in corridoio frugandosi le tasche alla ricerca di qualche spicciolo.

La luce lattiginosa dei neon illuminava il pavimento di linoleum e una serie di porte sbarrate. Lo attraversò intontito e sovrappensiero, trovandosi direttamente in cima alle scale, e nemmeno si accorse di non avere incrociato nessuno, lungo il percorso.

Scese una rampa, poi una seconda.

Stava per imboccare il corridoio che gli si apriva a destra, e che l’avrebbe condotto al distributore automatico, quando la sua attenzione fu attirata da un vociare indistinto, sotto le sue scarpe.

Trattenne il fiato.

Strizzò gli occhi e aguzzò gli orecchi.

Veniva da giù.

Ma non c’era nulla lì sotto, a parte qualche deposito ammuffito e una zona di carico per i camion delle consegne alimentari.

Il sangue gli batteva nelle tempie, la stanchezza accumulata non gli permetteva quasi di mantenere la posizione eretta, eppure decise di scendere, aggrappandosi al corrimano.

Il volume del brusio aumentava man mano che scendeva le scale.

Arrivò al seminterrato quasi in apnea.

Seguendo le voci superò due porte blindate e una saracinesca chiusa.

Com’è che sei stitico?!”, sentì urlare da dietro la terza porta. Era chiusa per metà.

Si schiacciò con l’orecchio al battente, stando attento a non spalancarlo.

Non ce l’avevi mica detto!”, continuò irritata la voce.

Non è colpa mia, non è colpa mia!”, sentì un secondo uomo piagnucolare e lamentarsi. “Lo dicevo che il tè a colazione non lo posso bere, ma non c’era nient’altro nella stanza dove mi avete messo.

‘Stì marocchini del cazzo bevono solo quello!”, sbottò.

La prima voce rise di gusto, era bassa e rauca come una grancassa: “Vuoi vedere che è colpa nostra, se non c’era un buco libero nel Braccio Uno.

Che poi, te lo dovevi bere per forza il tè?!”, sbottò indispettita, e subito si sentì un rumore sordo, come quello di uno schiaffo.

La seconda voce ricominciò a piagnucolare.

Non è colpa mia, non è colpa mia.

Datemi solo un altro po’ di tempo, vi prego!”

Tempo?!

Non ce n’è più di tempo, siamo già in ritardo!”, si inserì una terza voce.

Era aspra come una grattugia.

Co-cosa volete farmi?!

Cosa volete farmi?!!”, iniziò a strillare l’uomo stitico.

Non c’è mica solo un modo per fare uscire quella roba, sai?”, rise la grattugia.

Avanti – si rivolse al suo compare, quello col vocione da controfagotto – aprimi questo disgraziato e facciamo presto, che tra un po’ inizia il turno e dobbiamo fare un lavoro pulito, come l’ultima volta!”

No, no, no!”, continuava a strepitare lo stitico.

Gerardo era rimasto per tutto il tempo impietrito dietro la porta.

Come in trance.

Forse era il sonno arretrato, forse lo shock per quello che aveva appena sentito.

Le urla disperate dell’uomo lo riportarono coi piedi per terra.

Raccolse le forze e si catapultò nella stanza, spalancando la porta con una spinta.

Lo stitico era a terra, un omone grosso era chino su di lui.

Fermi!

Che cazzo state facendo?!”, urlò Gerardo con tutto il fiato che aveva in gola.

Non era la prima volta che doveva intervenire: le violenze sessuali tra detenuti erano all’ordine del giorno. “Lasciate stare quel poveraccio, brutti finocchi!”, tuonò, impostando la voce.

L’omone grosso si girò di scatto, ruotando la testa massiccia sul collo taurino.

Cazzo: era Mancino, il suo superiore.

Ispettore!”, esclamò Gerardo deluso. Non se l’aspettava mica, da uno come lui.

Gizzo, si può sapere che cazzo ci fai qui, a quest’ora?!”, sbottò l’ufficiale.

Ma, veramente… io volevo solo un caffè!”, esclamò sorpreso. Poi lanciò uno sguardo all’uomo, seduto in un angolo del pavimento, con i pantaloni mezzi abbassati e la maglia della tuta aperta sul ventre.

La scena era inequivocabile.

Nell’angolo opposto c’era un’altra persona alta e distinta, con un completo blu e una cravatta in tinta.

Lo riconobbe subito: era il Direttore Braschi, l’aveva conosciuto quando aveva preso servizio.

Lo guardò quasi inebetito, poi i suoi occhi arrossati cominciarono a rimbalzare sulle tre figure ad intermittenza, come le luci di Natale.

Raccolse il fiato nei polmoni, e sbottò con stizza: “Si può sapere cosa volete fargl…”, ma non riuscì a completare la frase, perché una vagonata di mattoni gli piombò dritta sulla testa.

Scusate il ritardo…”, fu l’ultima cosa che le sue orecchie riuscirono a udire.

Si risvegliò dopo un tempo indefinito.

Era nudo, steso su un tavolaccio di acciaio. Un lenzuolo lo copriva fino alle spalle.

Sovrintendente, Sovrintendente…”, lo canzonò la voce di cartavetro. Era quella del Direttore. “E’ qui solo da una settimana, e già ci combina questo bel casino?!”.

Co-cosa c’entro io?!

Cosa volete farmi?”, provò a chiedere, con la bocca allappata e le consonanti che gli rimanevano incastrate in mezzo ai denti. Gli girava la testa e si sentiva un rigagnolo di sangue impiastricciargli la guancia. “Io non ho visto nulla!

Ognuno si diverte come vuole”, provò ad ammiccare con fare accondiscendente.

Come avrà oramai intuito – esordì l’uomo, stuzzicandosi la pochette nel taschino – la cosa è più complicata di quello che sembra e lei si è intromesso nel nostro chiamiamolo “hobby”…”

Gerardo lo fissò incredulo: “Violentare le persone è un hobby?!”, sputò tra i denti.

Il Direttore scoppiò a ridere di gusto: “Ma quale violentare!

Allora lei – Sovrintendente – non ha capito proprio nulla!!”.

Fece una breve pausa, alla fine della quale il suo volto tornò serio e tirato: “Lo sa – esordì – quanti tossicodipendenti ci sono in carcere?

Lo sa quante migliaia di persone venderebbero la madre, per un grammo di coca, di eroina o di crack?!

Beh, noi non facciamo che rispondere a una domanda: è la legge del mercato!”, ammiccò.

Gerardo continuò a fissarlo, capendoci ben poco. Magari il sonno gli aveva appannato i riflessi.

Il Direttore incrociò le braccia sul petto: “Chi pensa che ce la faccia arrivare tutta questa montagna di roba in carcere?!

Imboscata nelle ventiquattrore, nascosta nelle mutande, sotto i berretti, nelle scatole di munizioni…

Beh, noi – da qualche tempo a questa parte – abbiamo trovato un modo molto più ingegnoso e redditizio: paghiamo un disgraziato qualsiasi – e lo paghiamo bene – per farsi arrestare e sbattere in cella per qualche giorno. Giusto il tempo di cacarci in Carcere tutta la roba che gli avevamo già fatta ingoiare, infilata nei preservativi.

Geniale, no?!”

Ehhhh!”, commentò il povero Sovrintendente, cercando di allentare le corde che gli bloccavano entrambe le mani.

Solo che a volte nascono degli inconvenienti… come quel nero di due anni fa: gli scoppiò un ovulo nella pancia e ci lasciò la pelle.

A quel punto, dovemmo per forza svuotargli l’intestino a mano.

O come nel caso di quel barbone, Caccola, l’anno scorso. Beh, quello era tutto matto.

A un certo punto iniziò a urlare che aveva il diavolo in corpo, e si mise a ingoiare una scatola di lamette per ucciderlo.

Anche lì, se non ci fosse stato il nostro dottore…”, si voltò compiaciuto verso un terzo uomo col camice bianco e i capelli tirati all’indietro.

Salve – disse rivolgendosi a Gerardo con un sorrisetto di circostanza – e mi dispiace per prima… ma sa, la situazione non ammetteva tentennamenti”, si scusò, lisciando una lunga sbarra di ferro che teneva in mano.

Il prigioniero sospirò. Il suo sguardo arrossato, si muoveva senza sosta nella stanza.

Poi prese fiato e coraggio: “Ha fatto la stessa fine anche quell’altro?”, si azzardò a chiedere. “Quello stitico, quello a cui volevate aprire la pancia prima per tirargli fuori la roba?”

I tre risero tutti assieme. Fu Mancino, però, a parlare per primo: “Per fortuna non ce n’è stato bisogno. La paura è stata talmente tanta, che se l’è fatta nelle mutande”.

Si avvicinò al lavabo, dove recuperò una vaschetta di acciaio: “Guarda che bellezza!”, gli mise sotto al naso cinque palline chiare che puzzavano di cacca.

Adesso è di sopra, a sciacquarsi il culo!”, aggiunse divertito.

Gerardo cercò di sorridere, ma gli venne fuori solo una smorfia stonata: “Benissimo, tutto è bene, quel che finisce bene.

Allora perché non mi slegate e andiamo tutti di sopra a prenderci questo benedetto caffè, no?!

Offro io”, strizzò l’occhio.

Il Direttore lo guardò in cagnesco: “Non la faccia così facile! – sbottò – lei sa troppo e ha visto troppo…”

Ma io non dirò nulla, lo giuro!”, piagnucolò il Sovrintendente, cercando di congiungere le mani in segno di preghiera, ma le cinghie di cuoio che lo fissavano al tavolo operatorio glielo impedirono.

Mi dispiace – aggiunse l’uomo – ma non possiamo fidarci.

Troppo rischio, e a me non piace il rischio.

E poi, ho letto nella sua scheda personale che è originario di Novara, no?

Che i suoi genitori vivono ancora là, vero?

Beh, avevamo giusto intenzione di estendere il nostro commercio al Nord…”, sorrise maligno.

Gerardo lo fissò incredulo: “Non vorrete mica che ingoi quella roba?”, disse indicando disgustato la scodella metallica che puzzava di merda.

Il Direttore rise: “No, non sarà necessario.

Diciamo solo che non ha retto allo stress di questo lavoro e ha deciso di farla finita, ingoiando una lampadina.

Che il dottore qui presente (l’uomo col camice fece un largo inchino) ha fatto di tutto per salvarla, ma che la situazione era altamente compromessa.

Così non ha potuto fare a meno di richiuderla… aggiungendo, magari, qui e lì qualche ovulo, in mezzo alle anse dell’intestino.

Quando arriverà al Carcere di Novara – prima di portarlo nella Camera ardente che io stesso suggerirò al mio collega di organizzare – ci sarà qualcun altro, tanto gentile, da recuperare la nostra roba dal suo pacco intestinale”, sorrise.

Poi si rivolse al dottore: “Proceda”, disse con tono duro.

L’uomo col camice si lisciò i capelli scuri e prese una siringa. Due gocce brillarono in cima all’ago, prima che glielo ficcasse nel braccio.

Gerardo non riuscì a muoversi, né prima, né dopo. Poi un’idea gli attraversò la testa: “Finalmente… finalmente si dorme”, fu l’ultima cosa che riuscì a pensare prima che il medico gli coprisse il volto con un lenzuolo bianco che gli aderì alla faccia come un guanto.