Luna di Sangue 1945


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Grauso, di là!

Dietro quella porta, Cristo!”: il Sergente Grandi – Maggiore della RSI – urlava ordini a destra e sinistra gonfiando le guance. Si sarebbe detto che – da civile – sarebbe stato un ottimo suonatore di tromba, se il Duce non avesse proibito il jazz da almeno una decina d’anni.

In realtà, prima della guerra, faceva il professore di Liceo.

Libero!”, rispose Grauso.

Si strinse al petto la mitraglietta TZ-45, gioiellino bellico della Repubblica Sociale: “Non c’è nessuno…”, aggiunse caso mai il superiore non avesse capito.

Al piano di sopra?”, chiese deluso il Sergente ad altri due uomini che stavano scendendo ciondolando una rampa di scale di legno e pietra.

Avevano ambedue la divisa grigia della Repubblica di Salò, con le mostrine della Seconda Granatieri Littorio.

Quello più alto, con i capelli biondi corti e l’aria di chi non dorme da almeno due settimane, scosse la testa, imitato subito dall’altro: un siciliano di 23 anni, salito fin sotto le Alpi a difendere il Duce e l’Italia, in virtù di una promessa strappatagli dal padre marcista della prima ora, prima che tirasse le cuoia per una epatite.

Buono lui!

Mica doveva combattere con la fame, il freddo e quei cazzo di partigiani, che non sapevi mai dove fossero, ma potevi stare ben certo che – quando meno te lo aspettavi – te li ritrovavi tutti addosso, e allora manco il tempo di un Pater-ave-gloria, che eri bello che stecchito.

Cristo!”, sbottò irritato il Sergente, abbassando le mani e la canna del mitra.

Magari – disse quello biondo, Remo si chiamava: Curzi Remo, ed era di Vercelli – qualcuno li avrà avvertiti e sono scappati via già ieri, quando ancora era giorno…”

Grandi arricciò il suo naso affilato come un rasoio: “Ma ti sei visto intorno?!

Chi doveva avvertirli?

Le vacche?”, sbottò, indicando la campagna scura al di là della finestra.

E se fosse stato il Diavolo?!”, lo guardò atterrito.

Il Sergente sospirò sconsolato.

La casa, dov’erano arrivati quella sera – seguendo le tracce disseminate fra le montagne piemontesi da quasi un mese – era a ridosso di un rivo, in mezzo alla Valsesia. C’era solo una strada per arrivarci e loro l’avevano evitata accuratamente, passando per un piccolo bosco di conifere e guadando a piedi il fiumiciattolo, con l’acqua gelata che gli aveva inzuppato i pantaloni e riempito gli stivali di cuoio ingrassato.

Se qualcosa di malvagio c’era in quella zona, l’epicentro non poteva essere che quello.

L’avevano trovato, finalmente.

Sergente Grandi, inutile dire che l’incarico che vi viene affidato è della massima importanza, oltre – ovviamente – della massima segretezza”, gli aveva intimato il Tenente Mancino, quando era stato convocato – un mese prima – nel suo ufficio, a Torino.

Ho avuto ordini direttamente dal Duce di mettere a vostra disposizione uomini e armi. Tutto quello che vi serve per risolvere il ehm… problema”, tossì per poi passargli una cartellina grigia con in cima lo stemma dell’Aquila imperiale che stringe tra gli artigli un fascio littorio.

Il Sergente Grandi la soppesò con entrambe le mani, come se pesasse una tonnellata. Poi l’aprì.

Non sapeva cosa c’avrebbe trovato dentro, ma il tono del Tenente non lasciava presagire nulla di buono. E se s’era scomodato il Duce in persona, con tutto quello che gli passava per la testa in quel momento – con quei cani degli Americani che dopo essere sbarcati prima in Sicilia e poi ad Anzio, avevano sfondato anche la Linea Gotica e si preparavano a mettere in scacco la Repubblica di Salò – allora, beh, la questione doveva essere seria per davvero.

Con le dita tese, iniziò a sfogliare il fascicolo: c’era una relazione dei Carabinieri, che descriveva l’omicidio di due donne a Serravalle.

Le poverette – Gemma Risolo, 27 anni, casalinga, un marito prigioniero dei comunisti in Russia e la madre Giovanna Franchini in Risolo, 63 anni, vedova da almeno due lustri – erano state trovate assassinate al secondo piano della loro cascina, dove sembrava si fossero rifugiate chiudendosi nella camera da letto.

La porta era stata sfondata e la vernice, di un verde pallido, si presentava raschiata via in più punti, come se l’avessero grattata via con un punteruolo: giaceva sghemba, agganciata al cardine inferiore, spalancata a forza verso l’interno.

La scena descritta dalle guardie era a dir poco impressionante. La donna più giovane – da poco arruolatasi nelle ausiliarie – era riversa sul letto, le braccia le erano state strappate dal busto e lanciate in fondo alla stanza: una penzolava ancora inerte dall’armadio. La madre, invece, aveva la testa stritolata, come se fosse stata inserita in una pressa, ma non c’era nulla del genere in tutto il casale, solo vecchie botti, un aratro di legno e qualche gallina rinsecchita nel pollaio.

I Carabinieri concludevano il verbale dicendo che – quasi certamente – doveva essersi trattato dell’opera di un gruppo di sbandati, che – approfittando del caos dovuto alla ritirata – si erano introdotti in casa per fare man bassa di tutto quello che avrebbero trovato e, di fronte alla reazione decisa delle donne, la più giovane delle quali armata di moschetto, si sarebbero infuriati trucidandole.

Questa Informativa era datata 5 agosto del ‘44, quando lui era ancora intento a completare l’addestramento militare a Sennelager, in Germania, secondo gli accordi presi dal Governo della RSI con Hitler.

Il dossier, però, continuava e – ben presto – il Sergente Grandi si era reso conto del perché la cosa avesse fatto preoccupare le alte sfere della Repubblica, mettendo in allarme perfino il Duce.

Il 4 di settembre, infatti, un manipolo di otto uomini della RSI era stato trovato trucidato sul versante italiano del Monte Rosa, mentre era in ricognizione alla ricerca di possibili traditori. Le montagne, infatti, da mesi oramai, pullulavano di questi cosiddetti “partigiani”, e il Comando Italiano e Tedesco stavano unendo le forze per stanarli tutti e riportare l’ordine nel territorio a Nord del Po.

I soldati erano stati sorpresi di notte, mentre avevano trovato riparo all’interno di una stalla inutilmente bombardata qualche settimana prima dagli Alleati.

Dovevano essere stati attaccati di sorpresa, perché nemmeno l’uomo di guardia – all’ingresso – aveva potuto dare l’allarme. Lo avevano trovato alcuni contadini a faccia in giù, davanti alla porta, riverso in una pozza di sangue: la faringe gli era stata strappata dalla gola con un colpo secco.

Non era andata meglio agli altri sette all’interno: sorpresi nel sonno erano stati tutti sbudellati, come se fossero stati attaccati da un branco di cani randagi che si erano divertiti a srotolare gli intestini e tenderli per tutto lo stanzone come la trama di un telaio.

Il 3 di ottobre un altro agguato aveva preso di mira un camion militare, che, approfittando della copertura notturna, stava scendendo verso il confine toscano portando un carico di rifornimenti alle prime linee e altri due attacchi – quasi contemporaneamente – erano avvenuti, la notte di Ognissanti, quando erano stati presi di mira una stazione del genio militare e un’officina poco distante, dove erano in sosta alcuni mezzi di fanteria.

Nessuno, manco a dirlo, era sopravvissuto per raccontare cosa fosse veramente accaduto. Brandelli di carne sanguinolenta erano sparsi per tutto il locale insieme a quel che restava delle divise.

In quest’ultima occasione, in particolare, era stato fatto fuori anche un Ufficiale tedesco assieme al suo luogotenente: avevano avuto un guasto al sidecar mentre erano diretti a Monaco e si erano dovuti fermare per la notte, in attesa che i meccanici italiani sostituissero il carburatore e un paio di ammortizzatori.

Le loro teste erano state trovate all’interno del vano passeggeri della BMW R75 e i cappelli infilati – uno a destra, l’altro a sinistra – sulle corna del manubrio.

La cosa aveva fatto infuriare il Comando tedesco. Si diceva che lo stesso feldmaresciallo Kesselring, capo delle forze armate germaniche in Italia, premesse affinché gli fosse portata la testa del colpevole su un piatto d’argento.

A questo punto, la cosa non riguardava più solo i Carabinieri e la Milizia di qualche sparuto paesello delle prealpi, ma aveva tirato in ballo il Governo stesso della Repubblica Sociale.

Il Tenente Mancino riprese la parola: “Non sappiamo cosa ci sia davvero dietro questa carneficina, ma il momento è delicato e non possiamo permettere che il morale delle nostre truppe venga fiaccato dal tarlo della paura.

Né possiamo permetterci di fare una figuraccia con l’Alleato tedesco”.

Grandi lo fissò atono per qualche secondo. Stava per dire qualcosa, ma poi si fermò, come rapito da un pensiero.

Ne approfittò il Superiore per aggiungere: “Tra meno di un mese è Natale e – con l’anno nuovo – l’Asse sferrerà il suo colpo mortale per avere finalmente ragione delle potenze plutocratiche.

Le voci, tuttavia, corrono – sospirò sconfortato l’Ufficiale – e nelle camerate affollate si mormora sempre più spesso di streghe e di riti pagani, su nel folto delle montagne. Di demoni che camminano di notte e che si nutrono della carne degli uomini, per rubargli l’anima.

Vedersela con l’artiglieria nemica è un conto, ma sfidare l’Inferno, beh, i nostri soldati non sono preparati a tanto.

E invece abbiamo bisogno di serenità, tra la truppa – batté un pugno sul tavolo –.

Non possiamo permettere che questi macellai ne fiacchino lo spirito per annientarne il corpo, uomini o diavoli che siano.

Mi avete capito Grandi?!”, scattò in piedi.

Sissignore”, batté i tacchi il Sergente, poi aggiunse: “Ma, beh, io come posso?

Insomma, che c’entro io?!”, provò a restituirgli il fascicolo.

Il Tenente sorridendo mise avanti entrambe le mani per fermarlo: “Lei è risultato il primo del suo corso, durante l’addestramento di quest’estate in Vestfalia: il Comando tedesco l’ha segnalata con una nota di merito.

Inoltre, durante la Campagna di Grecia, ha dimostrato grandi doti organizzative e tattiche, oltre che assoluta fedeltà alla Patria e al Fascismo.

E infine – strizzò un occhio malizioso – lei insegna letteratura al Liceo, no?

Chi ne sa più di lei sull’Inferno, che ha letto Dante!”

Grandi provò a replicare al sorriso, ma gli venne fuori solo una smorfia stonata. Le cose non si stavano mettendo per niente bene per lui.

Orsù – il Tenente girò attorno alla scrivania, su cui campeggiava un busto in bronzo di Mussolini – scelga gli uomini che le fanno più comodo, potrà contare su tutta la Divisione.

C’è una sola condizione: dovrà portare con sé anche l’Oberscharführer Peter Hansen, delle Waffen SS”.

Ma veramente…”: dopo quattro mesi di addestramento in Germania, dei tedeschi ne aveva le tasche piene!

Nessun “ma”, Sergente.

Non dopo la brutta storia della rimessa: si figuri che i tedeschi, per vendicarsi, volevano colpire tutta la zona del Lago d’Orta con una rappresaglia in grande stile (sa come sono fatti), ma sono riuscito ad evitarlo con la promessa di coinvolgerli direttamente nella battuta.

E poi il Maresciallo Hansen è un militare di grande esperienza: vedrà, le sarà molto utile…”, quindi stese il braccio destro e lo congedò con un “A noi!” di circostanza.

Per la verità, di esperienza, Hansen, ne aveva fatta fin troppa: era stato per quasi due anni l’attendente di Franz Ziereis, Comandante del Campo di Concentramento di Mauthausen, succeduto, all’inizio del 1939, al vecchio Comandante Albert Sauer, estromesso dal Fuhrer per “pigrizia” nell’attuazione della Soluzione finale.

Qui si era distinto per lo zelo e la dedizione assoluta alla causa nazionalsocialista.

Si diceva che non dormisse mai e – di notte – era solito girare tra le baracche, per controllare personalmente che tutto funzionasse a dovere.

Non era raro vederlo giustiziare personalmente i prigionieri, tagliandogli la carotide con uno stiletto affilato che teneva sempre nello stivale. Ogni tanto ne trovavano qualcuno, di questi ebrei e lestofanti, dissanguato nella neve.

Le sue qualità e la sua ferocia non erano passate inosservate ai vertici del Reich e presto era stato destinato ad altre e più importanti mansioni direttamente sul fronte russo, dove era stato insignito della Croce di Ferro per meriti militari.

In quel caso, in particolare, un contrat­tacco notturno aveva travolto il suo re­parto alle porte di Stalingrado.

Peter Hansen – a quanto pa­reva – era bravissimo a fingersi mor­to.

I russi lo superarono solo per trovarselo alle spalle che spa­rava come un indemoniato. Tornarono ad attaccare la sua postazione, di nuovo pensarono di averlo ucci­so (per controllare che tutti fosse­ro morti infilzarono i cadaveri tedeschi con le baionette). Ap­pena si allontanarono di nuovo Hansen si rialzò e aprì il fuoco.

Venne recuperato dai suoi compatrioti la mattina successiva: attorno alla sua mitragliatri­ce c’erano 52 russi morti. 

Aveva un’età indefinibile, tra i venti e i quarant’anni, capelli biondi rasati sul collo e un paio di occhi che dire azzurri sarebbe stato un eufemismo: sembravano due stalattiti di ghiaccio, di quelle che, d’inverno, si formano davanti ai tetti delle baite. Anche casa di suo nonno diventava così durante i lunghi inverni in montagna.

Il Sergente Grandi, quando ne incrociò lo sguardo, quella notte stessa, sentì un’identica sensazione di freddo intenso corrergli lungo la schiena.

L’Oberscharführer – che per la verità non avrebbe dovuto incontrare prima dell’indomani – si era presentato inaspettatamente a prelevarlo in Caserma quella notte a bordo di una Stoewer 40, il veicolo fuoristrada più utilizzato dall’armata tedesca.

Poche ore prima, infatti, qualcuno aveva fatto saltare i binari della linea Torino-Cuneo. I pochi passeggeri – che stavano rientrando in città dopo aver battuto le campagne alla ricerca di qualcosa da mangiare per le proprie famiglie – erano stati fatti scendere. Il macchinista era riuscito a dare l’allarme, poi era caduto un sinistro silenzio radio.

All’arrivo dei primi soccorritori, una scena raccapricciante si era aperta dinanzi alle loro torce: circa quindici corpi giacevano sui binari, ma era impossibile determinarne il numero preciso.

Smembrati, squarciati, dissanguati, i cadaveri costituivano un immenso rompicapo che ci sarebbe voluto intere settimane per ricomporre.

Non c’era tutto quel tempo: dovevano rimuovere tutto al più presto possibile e ripristinare la linea, per evitare che truppa e popolazione civile si impressionassero troppo, con effetti devastanti sul prosieguo del conflitto.

La sensazione che qualcosa di malefico stesse veramente operando nell’ombra più scura, lo colse come una spina sotto la pianta del piede.

Genosse Sergeant”, la voce di Hansen era uno stridio carico di rabbia e di rancore. “Prepara fostra roba presto, dofere andare subbito”, l’aveva chiamato dall’ingresso della camerata, nel controluce del corridoio, svegliando metà dei presenti.

Nella fretta e la concitazione del momento, infatti, Grandi non era riuscito a trovare una sistemazione consona al suo grado e si era dovuto accontentare di una branda vicino al bagno.

Poco male, gli piaceva stare in mezzo ai soldati, per lo più giovanissimi: gli sembrava di essere tornato a più di cinque anni prima, quando ancora insegnava in un Liceo di Pavia.

Dopo mezz’ora di macchina, trascorsa per lo più in silenzio, i due militari erano giunti sul luogo dell’attentato.

La luna – piena e luminosa – illuminava la scena, conferendole un tocco sinistro.

Grandi fu il primo a scendere dalla macchina, seguito da Hansen. Il tedesco fiutava l’aria come un cane da punta: Grandi pensò che stesse cercando nell’aria tracce di esplosivo.

Si avvicinò ai binari.

Era peggio di come se l’era immaginato leggendo i primi rapporti: sembrava che qualcuno si fosse divertito a mettere del tritolo in una macelleria. Carne e sangue erano sparsi ovunque, tingendo di rosso il pietrisco in mezzo ai binari che ai suoi occhi sembrò davvero il Flegedonte, il fiume di sangue bollente descritto da Dante nel XII Canto dell’Inferno.

Grandi cercò di concentrarsi sui dettagli, lasciando da parte l’orrore della scena.

Innanzi tutto – pensò – la strage non dipendeva dall’esplosivo utilizzato. Nemmeno una grossa bomba a caduta libera lanciata da un aereo americano avrebbe potuto compiere quello scempio. Magari avrebbe provocato un enorme cratere fumante, questo sì. Se l’avesse centrato, avrebbe fatto saltare in aria tutto il treno, riducendolo a un groviglio di ferraglia, ma qui, invece, si trattava di ben altro. Qui c’era stata una autentica caccia all’uomo, come se un branco di formiche si fosse avventato su un pacco di biscotti, e avessero iniziato a spezzarli pezzo pezzo, per meglio trasportarli nella loro tana.

Le persone, tra cui almeno sei militari che tornavano da una licenza premio, erano sparse nel raggio di almeno venti metri, tutti raggiunti e finiti nel modo più crudele possibile, come in un Sabba infernale.

E poi, l’unica carrozza sfiorata dall’esplosione era stata la motrice. Ma l’impatto era stato minimo, ed era giusto servito a intaccare la linea e farla deragliare. Ma – come una balena arenata – la macchina giaceva ancora pressoché integra sui binari spezzati, magari solo inclinata leggermente su un lato.

Il Sergente si avvicinò alla macchina e – salendo un gradino – si affacciò dal finestrino: il macchinista era chino sul manubrio, una leva ancora stretta sulla leva del freno. La testa… la testa non c’era più.

La ritrovò poco dopo, facendo il giro della motrice: era dall’altra parte, lanciata dal finestrino, con ancora il berretto rosso infilato e gli occhi sbarrati in un ultimo sussulto d’orrore.

Di fianco, tra alcuni ciottoli insanguinati, uno scintillio sinistro catturò la sua attenzione: era una stella alpina, di ottone lucidato. La luna, grossa e piena, l’aveva messa in evidenza in mezzo a tutto quell’orrore.

La raccolse con cautela e se la rigirò tra le mani. Aveva una fibbia, sul retro, e qualche filo di cotone ancora attaccato: magari era stata strappata a qualcuna delle vittime durante il massacro ed era finita in mezzo ai sassi.

Se l’infilò in tasca senza pensarci più di tanto, quindi si voltò a guardare il commilitone tedesco: lo vide aggirarsi eccitato tra i cadaveri, come un’ape sul miele. Aveva lo sguardo iniettato e sembrava schiumasse.

La febbre della caccia si era impossessata di lui. “Da cvesta parte!”, gli urlò indicando una serie di impronte che – partendo dal terrapieno su cui erano posati i binari – si addentravano nella prospiciente foresta. Erano almeno tre serie, due più minute, le altre più grosse e pesanti, ma il terreno era troppo inzuppato d’acqua per qualsiasi tipo di rilievo.

In ogni caso, si trattava dell’unico segno di vita in tanta devastazione.

L’inseguimento andò avanti tutta la notte.

Poi – poco prima dell’alba – dovettero rientrare.

Aveva iniziato a piovere fitto e le tracce, oramai, si perdevano nel fitto della montagna: sarebbe stato inutile continuare una rincorsa senza uomini e senza mezzi.

Il giorno dopo – scelta una mezza dozzina di camerati tra i più ferrati in tecniche di caccia e guerriglia – si rimisero in marcia, ma – suggerì il tedesco – solo dopo il tramonto, per evitare che, vedendoli arrivare, i nemici fuggissero a nascondersi nel dedalo di alberi e sterpaglie che erano le Prealpi.

Da allora, era passato quasi un mese.

Le ricerche erano partite dal luogo del deragliamento, seguendo le pochissime tracce rimaste in quell’impenetrabile intrico. Avevano attraversato montagne e valli; foreste e pascoli; paesi di poche anime e pietraie desolate.

Si muovevano di notte, sfruttando l’invisibilità del buio, e dormivano di giorno, in alloggi di fortuna, ricavati in vecchie fattorie abbandonate e grotte tra i monti.

Dopo tre settimane di questa vita, gli uomini erano allo stremo delle forze.

Solo il tedesco sembrava infaticabile.

Sempre all’erta, sempre vigile.

Specie di notte,

Ogni tanto spariva dalla circolazione. Diceva che andava in avanscoperta, per poi tornare – dopo una mezz’ora – ancora più carico e determinato.

Quella notte le tracce li avevano condotti dritti a quel casale al centro della Valle. Le finestre erano buie e il camino spento, nonostante il freddo intenso.

La notte era scura e il plenilunio coperto da una spessa coltre di nubi cariche di pioggia.

Erano entrati dalla porta principale: era solo accostata, non c’era neanche stato bisogno di sfondarla. Cattivo segno: ci fosse stato qualcuno, sarebbe risultata sprangata dall’interno.

Avevano perlustrato la casa da cima a fondo, dividendosi nelle varie stanze, alla luce delle torce e di un paio di lanterne che avevano trovate abbandonate su un tavolo sotto una piattiera di betulla.

Loro non potere essere movlto lontano…”: Hansen era davanti all’ingresso. Annusava l’aria e si guardava intorno con gli occhi di brace.

Altri due uomini tornarono dalla perlustrazione nelle stalle, un altro rimase fuori, di guardia.

Grandi si guardava attorno sospettoso.

No davvero, non poteva essere: non potevano essersi volatilizzati. Le tracce si fermavano poco prima del rivo e – quella – era l’unica casa nel raggio di almeno 20 km. Né alberi, né rocce: solo quella casa.

Dove diavolo si erano cacciati?

Diavolo appunto.

Che ci fosse davvero lo zampino del Maligno in tutto questo?

Si affacciò in cucina. La stufa era fredda, come anche la vecchia cucina a legna, bordata di maioliche bianche e blu. Non c’era traccia di vita, niente che facesse pensare che la casa fosse stata abitata negli ultimi mesi.

Stava ritornando in quello che – prima della guerra – avrebbe dovuto essere un salottino di rappresentanza, con due vecchie poltrone ricoperte da un liso vellutino verde e su una parete un quadro ad olio con una scena di caccia al cinghiale, quando un fruscio, dietro una credenza, attirò la sua attenzione.

C’era solo un paio di bicchieri, lì dentro, e una brocca sbeccata.

Un topo?

Forse, o magari un tarlo.

Ma – dopo tanti anni di guerra – Grandi aveva imparato a non dare nulla per scontato e – soprattutto – a seguire il suo istinto, come quando in Grecia un commilitone voleva convincerlo a ripararsi per la notte sotto un ponte.

Sembrava tranquillo, un ponticello come tanti, su un torrente oramai asciutto. Ma, qualcosa lo trattenne. Istinto o cos’altro fosse non l’avrebbe mai saputo, ma quel ponte gli comunicò una sensazione di freddo secco. “Muoviamoci di qui… non mi sento sicuro”, disse tra i denti. Si ripararono un chilometro più avanti, dentro una condotta di ferro.

Durante la notte un bombardamento alleato investì l’intera zona. Il tubo dove erano accovacciati iniziò a girare su sé stesso come ad una corsa di botti.

L’indomani mattina, si ritrovarono duecento metri più sotto rispetto alla notte precedente.

Del ponticello, non c’era più traccia: raso completamente al suolo. Si fossero riparati lì sotto, di loro non sarebbero rimaste nemmeno le orecchie.

Sospirando il Sergente si avvicinò alla credenza e iniziò ad esaminarne la sagoma, l’intarsio geometrico delle antine a vetro, i cardini di ferro brunito. Fece scorrere l’indice sulla cornice superiore, poi la afferrò saldamente per un angolo e la tirò a terra.

Il mobile precipitò come un caccia giapponese colpito dall’artiglieria nemica, rovinando al suolo in uno sfarfallio di vetri rotti e schegge di legno, rivelando, dietro di sé, una porta chiusa.

Grandi si fece immediatamente di lato, temendo una sventagliata di mitra: “Avanti, da questa parte!!”, urlò.

I suoi uomini arrivarono trafelati.

LOberscharführer Hansen li seguiva, con un sorriso maligno stampato sul volto e l’espressione soddisfatta di chi sa di aver avuto ragione.

Sergente, sergente!”, urlò Peppino Tuccillo, il siciliano, che era rimasto vigile in corridoio e che perciò fu il primo ad affacciarsi sulla porta.

Fermi!”, gli intimò.

Poi – stringendo saldamente il mitra – si mise di fronte al sesamo segreto e lo spalancò con un calcio ben piazzato. Altro che formule magiche.

La porta rivelò una specie di sgabuzzino in pietra viva, di tre metri di lato, ma profondo appena una settantina di centimetri. Quattro persone erano schiacciate nell’angolo a destra: due uomini, una donna e una bambina.

Grandi si fece immediatamente indietro, temendo un’imboscata, ma non arrivò nessun colpo, solo un “Non sparate, vi prego!”, piagnucoloso e lamentoso, pronunciato da una voce roca, ma comunque femminile.

Fuori, tutti e con le mani in alto”, ringhiò Grandi da dietro lo stipite.

Ci fu qualche secondo di interminabile attesa, poi un fruscio e una serie di passi leggeri: uno alla volta i quattro vennero fuori alla luce delle torce, come un filo di perline da un portagioie.

Prima i due uomini, uno giovane, con grosse spalle e mani nodose, l’altro anziano, ma non abbastanza da muoversi con l’ausilio di un bastone: aveva una cicatrice sotto l’occhio sinistro e una camicia di canapa arrotolata sui gomiti.

La donna, invece, era infagottata in un abito nero, lungo fino ai piedi e uno scialle di lana grezza, dello stesso colore, la copriva dalle spalle fin sotto la vita. La bambina, invece, era minuta e carina, con i capelli rossi che le ricadevano sulle spalle in tanti riccioli inanellati. Aveva gli occhi bassi, pieni di lacrime e stringeva saldamente la gonna dell’altra, come se non volesse precipitare nel vuoto.

Per carità – pregò l’uomo anziano – noi non c’entriamo niente. Noi siamo solo contadini, null’altro…”.

Grandi lo zittì duro: “E allora perché vi nascondevate come sorci?”

L’altro uomo, quello più giovane, abbassò le spalle sospirando, poi – con la punta del mento – indicò l’Ufficiale tedesco in piedi, in mezzo alla porta che divideva il salottino dalla cucina: “E c’è da chiederlo?!

Siamo gli ultimi due uomini rimasti nel raggio di trenta chilometri… gli altri sono stati tutti arruolati a forza nelle camicie nere o deportati in Germania…”

Gli angoli della bocca del tedesco si arricciarono in un sorriso beffardo.

Vi prego – insistette la donna – non fateci del male…”

Grandi li osservò, tutti e quattro, con grandi occhi vuoti. Aveva visto tanto, troppo sangue in tutti quegli anni. Sentiva di non poterne versare ancora.

Alla fine, quelli, erano solo poveracci che stavano cercando di sopravvivere alla guerra. Come tutti.

Abbassò, perciò, la canna del mitra.

Andiamo…”, mormorò esausto ai suoi uomini, quando un particolare attirò la sua attenzione.

L’uomo più giovane aveva una giacca di lana grezza e – sul bavero del colletto – un buco rivelava la presenza di un bottone o una borchia che non c’era più. Istintivamente allargò il suo campo visivo e, sull’altro lato della giacca, trovò una stella alpina di ottone a fare bella mostra di sé.

Si ricordò, solo allora, di aver letto su un rapporto che i partigiani della Valsesia erano soliti portarne per riconoscersi tra di loro.

Incrociò lo sguardo del giovane, che – sentitosi improvvisamente scoperto – si accese di meraviglia e determinazione. Fece un balzo di lato, prima che una sventagliata di proiettili partisse dal mitra del Sergente, per abbattersi di fronte alla parete vuota.

Grandi lo vide approdare in una frazione di secondo dietro la donna più anziana e – con rapidità e scioltezza – tirarle via lo scialle ed estrarre una P38 dalla gonna.

Fece per prendere la mira, ma la raffica di Grauso fu più veloce e quasi lo tagliò in due. Anche gli altri fascisti iniziarono a sparare all’impazzata, facendo crepitare l’intonaco sui muri di pietra. Come birilli caddero anche l’uomo anziano e la donna, che – centrata in pieno petto da un proiettile vagante – spirò in un gorgoglio di sangue.

Quando la polvere dei muri e quella da sparo si posarono sui pochi mobili e sul pavimento, rivelando l’orrore della carneficina, Grandi sospirò amaro: “Il Diavolo non c’entra un bel niente!

Il piano di questi traditori era quello di destabilizzare la Repubblica Sociale.

Cercare di fiaccare il morale delle nostre truppe incuneandovi il tarlo della paura. Per questo avevano preso di mira sempre e soltanto fascisti, soldati e accampamenti militari.

Feccia comunista!”, sputò a terra.

Gli uomini al suo comando annuirono rinfrancati.

Alla fine era sempre meglio vedersela con un gruppo di partigiani e rinnegati che con Satana in persona!

Curzi, il soldato biondino, si avvicinò al fagotto di stracci e sangue che era stata la donna per rigirarla. Di sotto – come un topo sotto un sasso – era appallottolata la bambina, con la faccia e le mani paffute imbrattate di polvere e sangue.

Il soldato, che a Vercelli aveva un figlio pressapoco della stessa età che lo aspettava assieme alla moglie – una contadinotta cicciottella e buona come il pane –, la tirò su delicatamente, poi sfilò da una delle tasche della giubba un fazzoletto nero, con il ricamo del teschio e della rosa, e le strofinò delicatamente il viso. Aveva due grandi occhi, quella bambina, verdi come le foglie di quercia in primavera. Due occhi penetranti, che ti guardavano dentro.

Curzi fu costretto a distogliere lo sguardo e scattò in piedi in preda all’imbarazzo e all’agitazione. “Che ne facciamo di lei?”, chiese al Sergente.

Secondo te?

La portiamo con noi fino al primo paesino e la lasciamo là, in una casa o in una chiesa…

Il nostro lavoro – concluse l’Ufficiale con un pizzico di orgoglio – è finito”.

Nein”, si sentì dal fondo della sala.

Grandi si voltò, imitato da tutti gli altri.

Cosa?”, chiese torvo.

Nien… no possible”, ripeté duro il Maresciallo tedesco.

State scherzando Camerata?”, gli si piazzò davanti Grandi, intuendo le pessime intenzioni dell’Ufficiale delle SS.

Miei ordini – digrignò i denti – sono di punire con la morte tutti i colpevoli”.

Ma è solo una bambina!”, si intromise Grauso, che ancora pensava al figlioletto lasciato a casa che era ancora in fasce. “Io non uccido bambini!”, incrociò le braccia.

Fu l’ultima cosa che riuscì a dire, perché – fulmineamente – l’Ufficiale tedesco gli tranciò la carotide con lo stiletto che si era sfilato dallo stivale.

Gli altri soldati italiani si schiacciarono al muro, impugnando saldamente le armi e puntandole verso il tedesco.

Cristo!

Che cazzo t’è preso?!”, urlò Grandi.

Gli occhi gelidi di Hansen si accesero di malvagità e ferocia. Un urlo inumano gli uscì dalla bocca che, paurosamente aperta, rivelò dei canini lunghi ed aguzzi come quelli di un animale selvatico.

Saltò all’indietro, poi di lato.

A scatti, come un pupazzo a molla, ma velocissimo.

Con una rapidità accecante fu addosso a Grauso: con un morso gli tranciò la carotide. Uno spruzzo di sangue ad altissima pressione lo centrò in pieno viso.

Inebriato iniziò a leccarsi le labbra appuntite, quindi cominciò a succhiare direttamente dalla ferita aperta, da cui sgorgava rosso il liquido vitale.

Grandi saltò indietro, imitato dai tre uomini rimasti.

Signore mio Dio!”, esclamò uno: era un giovane molisano, precettato a forza e adesso esperto in esplosivi.

Hansen sollevò la bocca dal collo del commilitone e lo trafisse con due occhi di brace, poi cacciò un altro urlo, da far gelare il sangue e gli fu addosso: con due unghie lunghe come coltelli gli squarciò il petto, fino ad arrivare al cuore. Glielo strappò che ancora batteva, quindi gli diede un morso che lo impiastricciò tutto. Al ragazzone siciliano strappò le braccia e glie le ficcò in gola.

Di là, presto!”, urlò Grandi all’ultimo superstite, quindi raccolse al volo la bambina – che era rimasta stesa a terra, rannicchiata dietro il cadavere della madre – e se la caricò sottobraccio come un fagotto.

Il soldato rimasto – un ventiduenne albino, da poco promosso Caporale – lo precedette in corridoio, poi – passato l’attimo di iniziale smarrimento – iniziò a sparare sopra la testa del Sergente che accorreva, per guadagnare metri preziosi.

Il tedesco, o vampiro che fosse, riuscì ad evitare tutti i proiettili muovendosi a scatti, come a rallentatore. Poi montò sul soffitto e iniziò inspiegabilmente a camminarci carponi, a testa in giù.

Il sangue gli scorreva dalla bocca alla fronte, precipitando sul pavimento in una pioggia infernale. I capelli, oramai, erano un ammasso coagulato e vermiglio.

Con la mano libera, il Sergente Grandi iniziò a mirare a quella cosa che si muoveva strisciando sul soffitto.

I proiettili finivano inesorabilmente nella pietra, in un turbinio di schegge, e – tranne che rallentarlo impercettibilmente – non avevano grossi effetti sul tedesco.

Tanto, comunque, bastò perché i tre riuscissero a guadagnare le scale e chiudersi in una delle due camere da letto.

Grandi abbandonò la bimba su un tappeto, quindi – assieme al giovane Caporale – spostò un comò davanti all’ingresso.

Si sentirono dei colpi sulla porta e rumore come di graffi.

Poi più niente.

Sergente… sergente, cos’era quello?!”, il candido Caporale tremava come una foglia. Aveva la divisa imbrattata di sangue ma si rincuorò che non fosse il suo.

Non ne ho idea”, sospirò il superiore ancora spaventato.

Qualsiasi cosa fosse, non era certo di questo mondo.

In fondo in fondo, il Tenente Mancino aveva ragione: c’era il Diavolo, in quella valle.

E che facciamo adesso?”, insistette isterico il giovane.

Grandi guardò la porta chiusa: “Quanti colpi hai?”, chiese.

Il soldato guardò il moschetto e si frugò le tasche: “Solo un caricatore di scorta e un colpo in canna”, sospirò deluso.

Il Sergente maggiore annuì. Anche lui non era messo meglio. Non avrebbero potuto resistere a lungo.

Ammesso che i colpi servissero a qualcosa contro quell’essere.

Dopo qualche minuto di interminabile attesa, sentirono una specie di fruscio provenire dal corridoio, dietro la porta sbarrata.

Serrarono i ranghi, spalla a spalla.

Gocce di sudore freddo imperlavano la fronte di entrambi.

Grandi aveva il dito sul grilletto, pronto a scodellare l’ultima raffica di mitra addosso a quella cosa: servisse o meno, almeno si sarebbe tolto la soddisfazione.

Un altro fruscio, più vicino.

Poi un rumore di vetri che si rompono e si fracassano a terra, il vento freddo che entra dalla finestra e penetra nelle ossa assieme a una risata agghiacciante: il tedesco era lì, alle loro spalle, a cinque metri da terra.

Il Sergente si buttò di lato, ma il mitra gli sfuggì di mano.

Il Caporale albino, che era anche quello più vicino alla finestra, fu sbattuto via da una manata che gli staccò di netto la testa bianca dal busto.

Poi Hansen si voltò di scatto, facendo schioccare la lingua insanguinata in mezzo ai denti.

Grandi – a terra – provò ad indietreggiare, strisciando sui gomiti, mentre quel demonio teutonico avanzava verso di lui sibilando come un serpente.

Sentì una fitta tremenda al braccio.

Scattò a sedere: una grossa scheggia di vetro si era infilata sotto il tricipite. La estrasse con forza, ferendosi il palmo della mano.

In quel preciso istante, il tedesco si avventò su di lui con gli occhi spiritati e la bocca aperta, emettendo un urlo agghiacciante.

Grandi cadde all’indietro e – con tutta la forza che aveva – gli ficcò la scheggia di vetro dritta in mezzo al petto. La spinse a fondo, squarciandosi la mano fino all’osso.

La creatura infernale cadde su un lato, tra urla e spasimi come non si sentivano da migliaia di anni in quelle valli fredde.

Poi un silenzio terribile come un sudario.

Con la mano sanguinante, il Sergente provò ad alzarsi, facendo perno su quell’altra, poi raccolse il lenzuolo dal letto e lo strappò in una lunga striscia che utilizzò per fasciarsi la ferita.

Si guardò attorno: il corpo del giovane soldato albino giaceva inerte in un angolo. La testa era schizzata sul comò e rifletteva nella specchiera il suo ultimo sguardo terrorizzato e la lingua da fuori.

Quello dell’Oberscharführer, invece, fumava in un angolo, come un fuoco fatuo.

La bambina?

La piccola era rannicchiata in un cantuccio, tra l’armadio e il comodino.

Tremava come una foglia.

I riccioli erano impiastricciati di polvere e di sangue, e le ricadevano appesantiti sulle spalle.

Per fortuna era rimasta illesa.

Grandi le si avvicinò con un sorriso.

Andiamo…”, le disse tendendole una mano. “Andiamo via da qui”.

Un raggio di luna sbucò da dietro le nubi a tagliare la penombra dalla finestra sfondata.

Gli occhi della piccola si illuminarono.

Andiamo…”, sorrise ancora Grandi.

La bimba si alzò.

La luna emerse in tutta la sua luminosità: un disco argenteo e pieno, che si rifletteva nel mosaico di vetri rotti disseminati sul pavimento.

In quel preciso momento, un tremito scosse la bambina.

Tremendi spasmi ne colpirono il corpo facendole emettere versi strazianti e animaleschi.

La sua pelle fremeva e cominciò a rivoltarsi lasciando che un pelo ispido e nero venisse fuori. Zanne feroci spinsero sotto le gengive per spuntare fuori e le unghie ad aumentare di volume fino ad assomigliare a quelle di un animale.

La sua stazza crebbe di una, due, cinque volte, strappandole i vestitini lisi di dosso.

Un ululato terribile mise fine alla trasformazione.

Grandi la fissò terrorizzato e capì: lei, era lei l’autrice della carneficina del treno.

E prima ancora nell’autorimessa e nella casa delle due Ausiliarie.

Lei – agli ordini dei partigiani – avrebbe dovuto portare lo scompiglio e la devastazione nell’esercito fascista durante le notti di plenilunio.

Lei.

Lei…

Indietreggiò di un passo alla volta.

I suoi stivali incontrarono il calcio del moschetto. Fece per abbassarsi ed afferrarlo.

Avrebbe potuto farlo.

Avrebbe potuto.

Ma come si fa ad uccidere una bambina?”, pensò mentre un morso gli strappò via l’intera faccia.