La mossa della Mantide

Strana gente circola nei minimarket: vecchine con la pelle di cartavetro e le tette grinzose; badanti ucraine – se ti va di culo rumene – coi denti d’oro, larghe camicione fucsia e giacche con le spalline.

Per loro, gli anni ottanta, non sono mai passati veramente.

Poi c’è una cifra di massaie tanto annoiate quanto arrapate; piccoli professionisti che comprano qualcosa da scaldare al volo nel microonde dell’ufficio; muratori che si fanno incartare due chili di pane e prosciutto; ragazzini che entrano per comprare due gomme e si infilano almeno tre bottiglie di vodka alla pesca nello zainetto.

E infine c’era Lei.

Tutti i giorni.

All’imbrunire.

Non un minuto prima, né uno dopo: precisa come l’Agenzia delle entrate.

Occhi ampi e veloci, carnagione così chiara da sembrare trasparente, gambe lunghe come stelle cadenti e capelli che gli arrivavano al seno, alto e sodo, di quei famosi seni che entrano nella coppa di champagne.

Due grosse ciocche – separate da una scriminatura centrale – erano verdi. Ma verdi proprio, cioè non che si era tirata addosso una scatola di piselli. Erano stati tinti di un colore tra lo smeraldo e gli spinaci.

Evidentemente le piaceva così.

E le stavano d’incanto.

Quando Piergiorgio Foresti la vide per la prima volta si sentì come attratto da un campo magnetico da cui non avrebbe potuto più sottrarsi.

Del resto, fino a quel giorno, se n’era sempre fregato della spesa, del burro chiarificato e del petto di pollo tagliato a fettine sottili.

C’era sua mamma per quello, no?!

E lui – poi – già doveva pensare a mandare avanti quel buco di studio da commercialista che gli aveva lasciato la buonanima del babbo.

Che – anche se non era più riuscito a laurearsi in Economia e Commercio ed era rimasto soltanto un misero ragioniere – chi se ne fregava, tanto lì dentro tutti lo chiamavano “Dottore” lo stesso. E questo nonostante fosse alto un metro e una banana e avesse un caschetto fitto fitto di capelli neri con la fila di lato.

Sembrava proprio Big Jim, quel giocattolo della Mattel che aveva da piccolo.

Altezza naturale, ovviamente!

Quella prima sera – che sua mamma l’aveva mandato a comprare qualcosa per la cena, visto che le si era di nuovo infiammato l’alluce valgo – la vide infilarsi tra due scaffali di pelati e conserve come se stesse sfilando sul red carpet della notte degli Oscar.

Stava cercando qualcosa: lenticchie o fagioli. Afferrava e rimetteva a posto i barattoli con grazia, fin a quando non ebbe trovato quello giusto.

Lo infilò nel carrellino a mano e sfilò via.

La seconda sera fu la volta di un detersivo.

La terza affettati.

La quarta mezzo chilo di braciolette.

Sembrava quasi che si divertisse a comprare una cosa alla volta, come se avesse dovuto completare un puzzle infilando un tassello diverso ogni sera.

Era la creatura più bella che avesse mai visto.

A Piergiorgio scattò immediatamente la frenesia della spesa.

Iniziò a sbattere fuori i clienti.

Anche in periodo di 730 e 740 – quando scattava l’ora X – non c’erano santi che potessero mantenerlo inchiodato alla sua poltrona.

Scendeva le scale d’un fiato, come un pazzo, per andarsi a chiudere nel piccolo supermercato in attesa che finalmente si facesse sera.

Non voleva perdersi un minuto della sua apparizione.

Per ingannare il tempo dell’attesa, aveva preso a ciondolare per gli scaffali leggendo meticolosamente le etichette sui prodotti in vendita.

Così aveva imparato a memoria che negli shampoo c’era il Sodium Chloride, che altro non era, poi, se non il sale da cucina; che l’olio di palma era contenuto nel sessanta per cento dei prodotti da forno e che il pane in cassetta aveva quasi gli stessi grassi di un cornetto.

E questo finché non appariva Lei.

A quel punto mollava il pacco di biscotti che teneva in mano e prendeva a seguirla per le corsie, fingendo di cercare qualcosa: una volta – per non dare nell’occhio – era stato costretto a leggersi tutte le istruzioni per infilare correttamente un assorbente interno.

Così facendo, era riuscito a spingersi vicino… sempre più vicino.

Inspirando profondamente – quella sera – aveva percepito il suo odore, sembrava quello dei bergamotti maturi. Dolce, ma con una nota decisa nel finale.

Non riuscì a resistere.

Non più.

Si avvicinò maggiormente, finendole di fianco: “Ehm, ah, ehm… anche a lei piacciono i biscotti integrali”, disse tutto d’un fiato. Sperò tanto che fosse un buon argomento per attaccare discorso.

Erano secoli che non approcciava una donna.

Magari di più!

Lei fu costretta ad abbassare lo sguardo sulla sua figura.

Lo sovrastava di almeno venti centimetri buoni, anche se – a onor del vero – andava detto che ai piedi portava degli stivali neri di pelle, alti fin sopra il ginocchio, con dei lunghissimi tacchi a spillo.

Sorrise.

Aveva degli zigomi altissimi e due labbra tonde e rosse come ciliege mature.

Piergiorgio si sentì quasi venir meno.

Non ci faccio caso – disse lei spostando una ciocca di smeraldi dalla fronte – non sono per me. Io non mangio carboidrati, mi fanno male”.

Aveva risposto.

Lei gli aveva risposto!

Piergiorgio si sentì improvvisamente più alto di almeno due metri e mezzo. Avesse alzato i mignoli, avrebbe toccato la controsoffittatura.

Beh, adesso capisco anche il suo fisico eccezionale”, si lanciò sorridendo.

Rassicurato e rassicurante.

Lei sorrise di nuovo.

Sembrò quasi arrossire.

Dai, non lasciar cadere la conversazione. Dì qualcosa: dì qualsiasi cosa basta che parli, pensò Piergiorgio vedendola posare il pacco di biscotti nel carrellino che teneva sottobraccio come una Chanel.

Stava già fissando la fila alle casse.

Piergiorgio inspirò profondamente: “Anche io sono sempre a dieta… pochi grassi, molta corsa. Palestra, Coca zero e barrette ai cereali.

Sennò come avrei questi addominali scolpiti!”, strizzò l’occhio indicando con un dito il piccolo ventre piatto sotto un accenno di pettorali.

Sembrava davvero un modellino d’essere umano.

Ma era la sua ultima carta.

Per fortuna anche a lei piaceva andare in palestra: “Io ci vado tutte le sere – disse strizzando l’occhio – guai a saltarne una”, mostrò il bicipite lungo e tonico come un arco elfico.

Quale frequenta?”, le chiese ancora, sperando di allungare il brodo.

In realtà non vado sempre alla stessa… – rispose lei candidamente – cambio ogni paio di mesi. Non mi va di vedere sempre le stesse persone.

Adesso sono alla Fitness & Soul”, sorrise.

Alla vista dei denti piccoli e bianchi Piergiorgio si sentì mancare di nuovo.

Ingoiò una bacinella di saliva.

Tentò, quindi, l’aggancio definitivo: “Com’è questa palestra?

No, perché anche io stavo pensando di cambiare. Magari potrei venire con lei a vedere che attrezzi ci sono, come ci si trova…”, la buttò lì.

Ecco, l’aveva detto.

Il dado era tratto.

Rimase lì ad aspettare come se dovesse scoccare la mezzanotte di capodanno, con gli occhi semichiusi e il sangue che gli fischiava nelle orecchie.

Il silenzio era immobile e lugubre come un sudario.

Ah, per me va bene – disse lei alla fine – ci sto passando proprio adesso”, sorrise.

Piergiorgio sospirò talmente forte da far oscillare i biscotti d’avena sui ripiani. “Ah, ottimo!”, disse quasi piroettando per l’entusiasmo.

La seguì alle casse come un barboncino ubbidiente.

Lei pagò il pacco di frollini, tirando fuori i soldi da un piccolo portamonete di pelle come desideri da una lampada.

Uscirono dal supermercato che era già buio pesto.

Piergiorgio faceva fatica a tenere il passo della sua falcata. Ogni volta che lei stendeva la gamba, a lui servivano almeno due saltelli per recuperare terreno.

Attraversarono a piedi un piccolo quartiere di villette a schiera, c’era anche un modesto parco giochi per i bambini, con le giostrine di metallo rovesciate e un’aiuola verde tempestata di cacca di cani.

E c’erano anche i negozi, oramai chiusi.

Solo qualche insegna al neon rischiarava i loro passi.

Passarono lungo una fila di saracinesche sbarrate, girarono l’angolo e si trovarono davanti a un basso fabbricato di mattoni col tetto di lamiera. La palestra – indovinò – sebbene la scritta sull’entrata non fosse quasi più leggibile.

Le porte metalliche erano chiuse con una catena e un lucchetto.

Di fronte all’edificio, con il vento freddo che gli scompigliava il ciuffetto di capelli neri sulla fronte, non poté fare a meno di sentire un piccolo brivido alla base del collo.

La guardò interrogativo. Lei sorrise conciliante, tirando fuori un mazzo di chiavi dalla borsetta: “Il lunedì sera è chiuso per le pulizie – disse -.

Ma il proprietario oramai è diventato mio amico e mi lascia le chiavi, così quando hanno finito di pulire, posso allenarmi in santa pace”.

Il lucchetto scattò con un click metallico.

Lei sfilò la catena come un boa di struzzo.

Ah, io mi chiamo Christine”, disse spalancando la porta sul buio all’interno.

Piergiorgio la seguì con lo sguardo, mentre spariva oltre la soglia. Poi afferrò centocinquanta grammi di coraggio e si avventurò dentro.

Un flash di luce lattiginosa lo abbagliò per una manciata di secondi.

Quando riaprì gli occhi i neon sul soffitto erano accesi su una distesa di panche e attrezzi da palestra. Pesi ordinati alle pareti e tapis roullant in fila sul fondo della sala.

Il pavimento era di parquet e le pareti a specchio rimandavano la sua immagine all’infinito.

Bella, vero?”, disse Christine.

Piergiorgio sorrise rassicurato.

Chissà cosa aveva temuto!

Sì – rispose ridendo di sé stesso – se prometti che ci sei anche tu, mi ci iscrivo domani stesso!”

Lei lo guardò.

Fisso, con gli occhi negli occhi.

Gli attimi si dilatarono all’infinito, come tele di ragno intrecciate l’una nell’altra. Le sue labbra rosse si avvicinarono a quelle di Piergiorgio, afferrandogli quello superiore coi denti piccolissimi e bianchi.

Un brivido lo percorse tutto, come la scarica di un fulmine in mezzo a un giardino pubblico.

Certo che ce ne hai messo di tempo!”, sorrise la ragazza quando le sue labbra umide si furono staccate da quelle di lui. “E’ più di un mese: cos’altro avrei dovuto fare per attirare la tua attenzione?

Comprarmi mezzo negozio?!”, rise di gusto.

Piergiorgio inspirò profondamente, per la meraviglia di quelle parole e il calore di quel bacio. In bocca gli era rimasto un sapore come di latte e miele.

Così piccolo e tenero: mi fai impazzire!”, gli diede un pizzicotto sulla guancia, stringendo le labbra a cuore.

Piergiorgio sospirò forte: in tutte quelle settimane passate a ciondolare nel minimarket l’aveva notato.

Lei lo aveva notato.

Quasi si sciolse come un ghiacciolo lasciato fuori dal freezer, quando – dopo qualche secondo – Christine gli afferrò una mano, piccola e sudata.

Vieni con me”, gli disse.

Lo trascinò in una stanza vuota.

Solo un divano rosso era addossato a una parete e un largo specchio faceva da fondale.

Aspettami qui”, gli disse, richiudendogli la porta alle spalle con un rumore secco.

Piergiorgio rimase solo, al centro della stanza.

Sospirò forte, un sorriso soddisfatto gli tagliava la faccia in due.

Chi l’avrebbe mai detto!

Stava succedendo per davvero.

Lui e Lei: quel miracolo di donna dai capelli d’erba bagnata.

Un sogno che aveva fatto mille volte, da solo, al buio della sua piccola stanza, nel lettino a una piazza, quando avrebbe dato due dita della mano destra per tenersela anche solo sul comodino, come una abatjour.

Sorrise di nuovo.

Ma che gli faceva alle donne!

Alle volte non si direbbe, ma come si dice: nella botte piccola c’è il vino buono. Doveva solo avere un po’ più di fiducia nelle sue potenzialità.

Stava ancora crogiolandosi nella soddisfazione della conquista, quando la porta si riaprì di scatto.

Christine entrò nella stanza. Aveva un vestito di latex nero, corto sulle cosce, stretto come un guanto, e gli stivali col tacco a spillo.

Un trucco deciso e seducente le impreziosiva i lineamenti sottili, mentre i capelli verdi erano raccolti in una lunga coda di cavallo.

In una mano teneva una frusta di cuoio nero lunga un paio di metri. Nell’altra un collare con le borchie, legato a una catena d’acciaio.

Glie lo lanciò a terra.

Spogliati e mettilo!”, ordinò.

Piergiorgio la fissò incredulo.

Christine fece schioccare rumorosamente la frusta: “Mettilo ho detto.

Subito!”

L’uomo – sorpreso e impaurito – non poté fare a meno di obbedire.

Si sfilò la giacca, quindi i pantaloni, cercando di ripiegarli con cura in un angolo.

Sbrigati!”, ordinò la donna con piglio autoritario, facendo roteare la frusta sopra la testa. Questa volta gli centrò in pieno un braccio, tagliando la camicia come fosse di carta velina.

Un urlo di dolore riempì la stanza, mentre la manica cominciò a tingersi immediatamente di rosso.

Con gli occhi gonfi di lacrime Piergiorgio si strappò letteralmente di dosso la camicia e la canotta di lana, rimanendo in boxer a fiori.

Nudo!”, ordinò ancora Christine.

L’uomo, questa volta, obbedì senza fare storie. Si abbassò le mutande alle caviglie, poi le scalciò via frettolosamente, rimanendo con le mani lungo i fianchi e il piccolo cazzo penzoloni.

Effettivamente aveva gli addominali a tartaruga, montati, però, su un fisico secco come un chiodo.

Vedi che impari presto?!”, sorrise la ragazza con una luce maligna nello sguardo.

Piergiorgio annuì timidamente.

Bravo cagnolino… e adesso in ginocchio, presto!”

Piergiorgio buttò fuori tutta l’aria e si mise carponi.

Non dimentichi qualcosa?”, disse ancora Christine, allungandogli il collare con un calcio.

L’uomo – con le mani tremanti – lo infilò dalla testa, stringendoselo, poi, dietro la nuca.

Bravo cagnolino… adesso sì che puoi leccarmi gli stivali”, rise forte.

Gli avvicinò la punta dello stivale.

Piergiorgio chinò la testa, tirando fuori due centimetri di lingua.

Era allappata e asciutta come un clinex.

La passò sulla punta della scarpa, lunga e affilata come una lancia.

Christine scalciò improvvisamente.

L’uomo rinculò all’indietro, piagnucolando, sputacchiando sangue e saliva. Lei ne approfittò per afferrare il guinzaglio e fissarlo ad una sbarra per i dorsali fissata alla parete. Poi tirò fuori un paio di polsiere di pelle, unite da un’altra catena, e le usò per legargli le mani dietro la schiena.

Che-che vuoi farmi?!”, iniziò a piagnucolare Piergiorgio.

Cane!

Ti ho dato il permesso di rivolgermi la parola?!”, gli urlò in un orecchio, quindi gli mollò un calcione nei fianchi che lo fece crollare a terra.

L’uomo continuò a singhiozzare a denti stretti.

Adesso ti insegno io un po’ di buone maniere…”, sorrise maligna, indietreggiando sui tacchi appuntiti. Fece schioccare la frusta un paio di volte a terra. La terza lo centrò in pieno alla schiena.

L’uomo soffocò un urlo.

Come fece per le altre frustate che si susseguirono in un tempo lunghissimo come vagoni di un treno, preannunciate da un sibilo sinistro.

Ogni vergata gli segnava la schiena, con un taglio netto e rosso. Dieci minuti dopo un’intera cartina geografica gli si apriva tra le scapole, fin sopra il sedere piccolo e ossuto. Le strade vermiglie si incrociavano con altre strade, in un dedalo di sangue e carne martoriata.

Grosse gocce tempestarono il pavimento di biglie vermiglie.

Il respiro di Piergiorgio si fece sempre più affannoso. Le ginocchia cedettero sotto le ultime due frustate e solo il collare fissato alla sbarra gli impedì di finire con la faccia sul pavimento.

Stupido cane… hai capito come ci si comporta adesso, vero?!”, rise sguaiatamente Christine.

Che dici?

Ne hai abbastanza?

Smettiamo?”, sorrise.

L’uomo si voltò.

I suoi occhi erano rossi.

Le lacrime gli segnavano le guance glabre e i capelli – di solito perfettamente in piega – erano sudati e spettinati sulla fronte.

Fece per dire qualcosa, poi abbassò lo sguardo sulle mattonelle del pavimento.

Quando lo rialzò, una luce nuova illuminava i suoi occhi: “Ancora…”, mormorò, inarcando di nuovo la schiena. Un sorriso come di un bambino alle giostre si impadronì della sua faccia tirata.

Ancora!”, implorò.

Aveva 36 anni Piergiorgio e non si era mai sentito vivo come in quel momento.

Perché non c’è niente come il dolore per farti sentire coi piedi ben piantati nella vita.