Anche i conigli miagolano

La prima cosa che sentì, fu il freddo del metallo. Poi le voci, sopra e dietro di lui. Voci attutite dall’anestetico, ma chiare e distinte.

Le orecchie gli si tapparono per il contraccolpo e gli occhi si rovesciarono all’indietro, sotto le palpebre, come se cercassero riparo da qualche parte. Provò ad abbandonarsi all’oscurità, lasciandosi cullare dal ritmo lento del respiro. Pensò al mare e al sole d’agosto.

Funzionò.

Poi – però – il dolore lo venne a cercare e lo colse di sorpresa, dal basso verso l’alto.

S’inarcò bruscamente, mentre tutta la parte inferiore del corpo urlava.

“Si calmi… si distenda!”, disse una voce.

Distendersi?!

“E’ una parola, con quest’affare nel culo!”, sbuffò forte l’uomo.

“Ma avvocato!”, scattò l’altro risentito, strattonando il lungo tubo di plastica nera con entrambe le mani. “La colonscopia richiede un minimo di sopportazione…

Su, su… ancora cinque minuti e abbiamo finito”, si sforzò di sorridere.

“Cinque minuti…”, sospirò l’altro rigirandosi sul lettino, col pantalone arrotolato attorno alle caviglie che gli impediva di sgambettare. “Mi sembrano cinque anni!”

Il medico lo guardò di sottecchi: “Avvocato Coniglio!

Sbaglio, o è stato lei a insistere così tanto per fare quest’esame?!

Adesso stia giù!”, gli diede un buffetto sul sedere secco e ossuto come un pacchetto di noccioline.

Coniglio lo guardò torvo, poi si coricò di nuovo sul fianco, strinse i denti e allargò le natiche, mentre il dottore riprese ad armeggiare nel suo sedere.

Sentiva il tubo che strisciava lento dentro il suo corpo, come un serpente che cercava una via d’uscita, dall’altro capo del tunnel.

“Ecco qua, abbiamo finito!”, disse il medico dopo avergli rimescolato tutto l’intestino.

Coniglio si voltò, la fronte sudata e l’espressione interrogativa e sofferente.

“Tutto bene”, sorrise ancora il sanitario, mentre arrotolava il tubo come un lazzo da cowboy.

“Lei è sano come un pesce!”

L’avvocato scattò a sedere. Si sentiva le viscere intorpidite e il più sacro dei buchi in fiamme, come se l’avessero spruzzato con l’aceto.

“Co-come sano?”

“Sano!

Niente da rilevare… nemmeno una piccola infiammazione. Stia sereno, avvocato, e si goda la vita!”, sorrise per l’ultima volta, prima di sparire dietro una porta seguito da due infermiere in camice bianco.

Si goda la vita…

Le parole del dottore lo accompagnarono lungo tutta la strada di ritorno dall’ospedale.

“Come se fosse facile!”, sospirò inforcando le porte automatiche dell’uscita.

Con tutto quello che c’era là fuori…

***

Al momento della prenotazione, un’infermiera col naso da uccello e i denti da castoro, gli aveva detto che – dopo l’esame – non avrebbe potuto guidare e così si costrinse a prendere un taxi. Lo guidava un tipo con l’accento rumeno, che non fece domande quando Coniglio si coricò su un fianco, invece di sedersi, con la testa appoggiata su un gomito e quello sul sedile. Puzzava di sudore e di scoregge, e si turò la bocca con una mano a coppa, che raccogliesse anche il naso.

Il viaggio di ritorno fu tutto un tagadà sulle buche nell’asfalto, tutto un sudare a fontanelle, a causa delle viscere in rivolta.

Si fece lasciare sotto il suo studio, a Via dei Mille. Pagò, scese dall’auto e cominciò faticosamente ad arrampicarsi per le due rampe di scale, tenendosi forte al corrimano, per non sforzare i glutei.

Sentiva dolore anche solo a respirare.

Riuscì a raggiungere il secondo piano. La targhetta di ottone sulla porta – Avv. Renato Coniglio – luccicava con orgoglio, nella luce calda del mattino.

Bussò.

Aspettò impalato davanti alla porta, finché sentì un ticchettio leggero avvicinarsi. Venne ad aprire la signora Adele, la sua segretaria da almeno una quindicina d’anni.

“Allora?”, chiese la donna sulla soglia.

Coniglio sospirò: “Non c’ha capito niente nemmeno questo!”

“E ti pareva!”, sbottò.

Aveva un vestito di stoffa leggera, informe, marrone scuro o nero, sfilacciato sul collo e sotto le ascelle. Ai piedi delle décolleté scure, con tre centimetri di tacco.

“Avvocato, come devo dirvelo?

Voi state bene.

Sta-te-be-ne!”, sillabò.

“Ma che bene e bene!

Che ne vuoi capire tu!”, sbottò Coniglio.

La signora Adele storse un labbro.

“Come te lo devo spiegare?

Io qualcosa ce l’ho, solo che ancora non hanno capito dove sta. Chiaro?!”

La donna abbassò lo sguardo: “Come volete voi…”

“Già, come voglio io!”, disse scrollando le spalle infastidito, quindi si rifugiò nella sua stanza.

L’interno dell’ufficio era angusto e la maggior parte dello spazio era occupata da una scrivania di noce, con relativa sedia girevole in similpelle.

Un vaso con dei fiori finti aveva trovato posto su di uno schedario di acciaio, mentre una cappottiera di legno era sistemata in un angolo. Non c’era nulla alle pareti, tranne la pergamena della laurea e un diploma di scuola magistrale, che aveva voluto fargli prendere la mamma, nel caso avesse fallito con la professione.

***

Coniglio avrebbe voluto restarsene da solo tutto il giorno, a lasciar riposare la testa e il sedere. Alle undici meno un quarto, però, la signora Adele bussò alla porta. Coniglio sparse un po’ di carte a casaccio sulla scrivania, per far vedere che era molto occupato.

Quando sentì bussare di nuovo alzò il telefono fingendo di essere impegnato in una chiamata importantissima. “Avanti!” ringhiò.

La signora Adele si introdusse nella fessura della porta: “Avvocato, sono io…”

“Adelì, ti vedo, non sei mica trasparente!

Che c’è?”

“C’è di là una persona… chiede di voi”.

La guardò torvo: “E non potevi dirgli che stamattina non ricevo?!”, sbottò. “Non è abbastanza per oggi?!”

“Ma dice che è urgente!”

“Ma che urgente e urgente… sarà la solita opposizione a una cartella esattoriale o – se ci va di culo – un incidente con la macchina!

Digli di ripassare domani…”

Adelina lo fissò, immobile per qualche secondo: “Mi sa che non c’entra la macchina… è Peppe Tatone, il figlio di Ciro”, sospirò alla fine.

“Cazzo”, pensò Coniglio.

***

Peppe Tatone era il primogenito di Ciro Tatone, pluripregiudicato e considerato uno dei boss più influenti del casertano, con contatti ramificati, che arrivavano fino al basso Lazio. Ciro Tatone era stato arrestato dalla polizia nel 2009 per omicidio e associazione per delinquere di stampo camorristico e condannato a 24 anni di carcere.

Peppe, al momento, era quello che reggeva le redini del clan.

“A-avanti”, mormorò l’avvocato.

Tatone si fermò per un istante sulla porta e la luce incorniciò la sua figura bassa e tozza, infagottata in una giacca a quadretti sbottonata. Aveva i capelli scuri tirati indietro col gel, gli occhi gonfi e il sorriso sbieco, di chi sa di trovare sempre una porta aperta.

“E questo che vuole da me, adesso?!”, pensò Coniglio, mentre finse di riattaccare in tutta fretta la telefonata.

“Disturbo?”, disse l’uomo, pensando visibilmente il contrario.

Coniglio deglutì, diede un paio di colpetti di tosse, fece per alzarsi, ma una fitta all’intestino lo piegò in due. “Prego, accomodatevi…”, riuscì a dire, allungando una mano sudaticcia sulla scrivania.

L’uomo glie la afferrò al volo, con cinque dita grosse e ruvide.

Chissà quanti cristiani avranno ammazzato, pensò ancora l’avvocato. E quanti microbi ci saranno sopra. Il sangue, si sa, porta un sacco di malattie!

“Co-come posso aiutarvi?”, riuscì comunque a chiedergli, dopo essersi frizionato la mano sulla giacca.

“Avvocà – esordì l’uomo – voi lo conoscete a Don Fabrizio?”

Coniglio sbarrò prima la bocca, poi gli occhi. Si grattò il mento e la nuca. Alla fine annuì timidamente.

Don Fabrizio – all’anagrafe Fabrizio Belluomo – era un sessantunenne originario di Bassiano, in provincia di Latina. Era stato un personaggio molto noto nella zona, conosciuto come “Don Fabrizio” per essersi spacciato più volte per santone e sacerdote, ma anche per le truffe e la pratica usuraia, per la quale, in passato, era stato condannato a cinque anni di carcere.

Coniglio c’era passato anche lui, per il suo “studio”, quando aveva cercato di farsi esorcizzare per curare un mal di denti.

Da quello che aveva letto sui giornali, Belluomo era stato trovato morto nella sua abitazione, ucciso nella serata di domenica. Stando ad una prima analisi il decesso sembrava fosse stato causato da soffocamento, piuttosto che dalle percosse ricevute con un corpo contundente alla testa. Come se fosse stato torturato per tirargli fuori qualcosa.

Oltre a delle impronte di scarpe in una pozza di sangue, i carabinieri avevano trovato anche un guanto di lattice nel cortile dell’abitazione, che avrebbe potuto appartenere proprio ad uno degli assassini.

Era stata sua cognata, Raffelina, a trovare il cadavere nella sua casa di via Trieste e secondo le prime informazioni aveva mani e piedi legati e la testa fracassata.

“Ma non è morto?”, mormorò l’avvocato.

“Una disgrazia…”, rispose Tatone, con un sorriso sarcastico.

“Altrochè!”

“Sono cose che capitano – annuì -. Don Fabrizio, ultimamente, si era fatto parecchi nemici. Da quello che abbiamo saputo, gli sbirri stanno cercando quattro persone, che sono state viste entrare in casa del morto.

E’ probabile che cercassero qualcosa e Belluomo è morto proprio per non avergliela data”, commentò ancora con fare duro.

Coniglio annuì.

Quando si entra in certi giri, è difficile morire nel proprio letto.

Quello che non riusciva a capire, però, era che cosa potesse centrarci lui in tutta quella storia. E glie lo chiese: “Ma non penso di potervi essere utile – cercò di schermirsi col Boss –. Lo sapete, io faccio solo civile: infortunistica stradale, liti condominiali. Al massimo posso capirci un po’ di successioni.

Qui, invece, voi avete bisogno di un penalista, un penalista serio!”

“Su avvocato, non fate il modesto!

Voi potete benissimo occuparvi del caso…”, sorrise Tatone.

“Caso?

Ma che dovrei fare? Chi devo difendere?

C’è già stato un fermo?

E chi?”, prese a chiedere a manetta.

“Non ancora?”

“E allora?”, sospirò il legale.

Tatone lo guardò proprio come si fissa un gatto morto stecchito sull’asfalto: “Avvoca’ – esordì con tono grave – parliamoci chiaro, voi non andate niente, né come penalista, né come civilista. Per questo ci servite!”

Grazie per la fiducia, pensò il legale.

“Il problema – riprese Tatone – è che Don Fabrizio, negli ultimi due o tre anni, aveva iniziato a lavorare per la nostra Finanziaria…”.

Sarebbe a dire – intuì Coniglio – che reimpiegava, prestando a strozzo, i soldi della camorra.

Ma si limitò ad annuire.

“Ebbene, da quando l’hanno trovato morto con la testa scassata, i Carabinieri hanno messo sotto sequestro l’appartamento e a noi serve una cosa che Don Fabrizio teneva lì in casa… una cosa che non è ancora saltata fuori, altrimenti l’avremmo saputo”.

Coniglio lo guardò con aria interrogativa.

“Un quaderno, avvocà. Un quaderno con dentro tutti i crediti e tutti i debiti… senza quello, rischiamo di far andare in fumo centinaia di migliaia di euro… e non ce lo possiamo permettere, con questa crisi!”

“E io che ci posso fare?”, chiese ancora il legale.

“Voi dovete assumere la difesa della famiglia di Don Fabrizio, e dovete richiedere un nuovo sopralluogo sulla scena del delitto. Una cosa di routine, per fare un po’ di scena, ma così avrete la possibilità di entrare i casa e recuperare il quaderno”.

“Io?!

Ma non avete già i vostri avvocati?!”, tentò di resistere.

Tatone lo fissò in tralice per qualche secondo, poi scoppiò a ridere: “Se l’avvocato Carusone si avvicina alla casa di Don Fabrizio, succedono due cose: la prima, è che ci ricollegano subito al morto, e questo può solo far andare per aria gli affari.

La seconda, è che – ammesso pure che lo facciano entrare in casa – gli sbirri gli staranno addosso come mastini, e non potrà cercare, né portare fuori nulla…”.

“E a me non mi staranno addosso?”, chiese Coniglio, stendendo la schiena sulla poltrona con espressione severa.

Tatone allargò le labbra in un sorriso beffardo: “Avvoca’, con rispetto parlando, a voi non vi caca nessuno!”

Coniglio lo guardò come se lo avesse appena bastonato nelle palle.

Ma la stizza gli morì in gola, non appena si ricordò di chi aveva di fronte. Abbassò la testa, strinse le spalle e alla fine incrociò le braccia: “Grazie, ma non sono interessato”, rispose piccato, mentre il suo sguardo si spostò sulle grosse mani del guappo, indugiando sul grosso anello d’oro con sigillo a testa di leone.

Tatone senza scomporsi estrasse un pacchetto di sigarette dal taschino interno della giacca. “Posso fumare?”, chiese, accendendosene una, senza prendersi la briga di aspettare una risposta.

Tirò un paio di boccate, soffiando il fumo sopra la testa di Coniglio: “Lasciate che vi dica una cosa, allora”. Il suo sguardo era duro come pietra. “Io sono un uomo pratico, e non mi piace chiedere le cose due volte.

Se accettate, c’è per voi un bel regalo”. Si guardò intorno, posando gli occhi sull’arredamento spoglio e sulla giacca stazzonata dell’avvocato. “E mi pare che ne avete bisogno”, sottolineò.

“Se rifiutate – riprese dopo un altro tiro – amici come prima… ma dovrò ricordarmi, che mi avete rifiutato un favore… e chi mi rifiuta un favore, non la fa una bella figura”, concluse, digrignando i denti.

“Per carità!

Non volevo offendervi”, si affrettò a ritrattare Coniglio, sforzandosi di sorridere amichevolmente. Sapeva cosa significava mettersi contro i Tatone in quel momento.

“Mandatemi subito qua i parenti del povero Don Fabrizio, ci penso io a questa cosa… e farò di tutto per accontentarvi”, gli strinse la mano.

Rimasto solo, l’avvocato si prese la testa tra le mani. “Ma in che casino mi sono andato a cacciare!”, piagnucolò. Poi uscì furibondo dalla sua stanza, sbattendo la porta così forte da farsi sentire in tutto il palazzo.

***

Coniglio camminava avanti e indietro, in preda all’agitazione. “Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo!”

La Procura, gli aveva appena accordato il diritto di svolgere un sopralluogo nell’appartamento della vittima e l’appuntamento con la polizia giudiziaria era per le quattro in punto. “Non puoi mai fare affidamento sui giudici!

Che ci voleva che dicessero di no?!

Lo fanno sempre!”.

Questa volta, invece, avevano acconsentito. Nemmeno il tempo di depositare in Procura la nomina della cognata, che era arrivato il fax con l’autorizzazione.

E che cazzo!

Uscito dallo studio di malavoglia, Coniglio raggiunse casa di Belluomo, in un quartiere alla periferia di Sant’Arpino, dal quale mancava da più di due anni.

Un sottufficiale dei Carabinieri lo stava aspettando sotto il portico. “Ah, avvocato… giusto voi!

Ma si può sapere che volete trovare qui dentro?!

Non ci sono riusciti i RIS, volete scoprire voi l’assassino?!”, rise.

Coniglio lo guardò, con aria preoccupata e colpevole. Se il militare non fosse stato distratto da un paio di tardone in minigonna, che passarono di lì proprio in quel momento, avrebbe potuto sbatterlo dentro anche per un omicidio. E, magari, lui, avrebbe pure confessato!

La manovra, comunque, gli dette il tempo di allentare la cravatta e accorciare il respiro: “Sapete come sono i clienti, no?!

Ti danno due soldi, e pretendono che ti metta a quattro zampe”, sospirò.

Il Carabiniere, lo fissò divertito: “Vabbè, tanto non ci troverete niente di interessante lì dentro. I Colleghi l’hanno già passata al setaccio, la casa.

Anzi, vi dispiace se noi – indicò l’altro militare che lo accompagnava – andiamo a prenderci un caffè?

Stiamo in giro da stamattina…

Voi iniziate pure ad entrare. La porta è aperta. Torniamo subito”.

Non dovevano averlo molto in considerazione, se lo lasciavano gironzolare da solo sulla scena del crimine. Effettivamente, Tatone c’aveva visto giusto.

Coniglio annuì – un poco risentito – e scalò la prima rampa di scale.

“Ah, avvocato!”, si sentì chiamare sulla soglia e quasi fece un salto sul posto come un pupazzo.

Era il Maresciallo, in piedi, sotto le scale.

Coniglio iniziò a tremare.

“Volete pure voi un bel caffè?”, sorrise il carabiniere tranquillizzandolo.

“No grazie”, declinò con un lungo sospiro. “Il caffè mi rende nervoso…”, sospirò.

Appena superato l’uscio, cominciò a guardarsi intorno, turbato dal silenzio che percepì in quella casa. Fece un lungo respiro e, dal corridoio, passò in cucina. I piatti sporchi erano ovunque e il tavolo ingombro dei resti della cena. Sulla sinistra del lavandino c’era una porta che dava su un piccolo terrazzo, con un paio di vasi di gerani.

La apri e abbassò la maniglia.

Una folata d’aria fredda lo costrinse a rientrare subito in casa. Tanto non c’era nulla di importante lì fuori, a parte i fiori secchi.

Tornò in corridoio e passò in soggiorno. Un tavolo di noce, era stato accostato alla parete e una larga macchia scura, poco distante dal divano, era cerchiata con del nastro adesivo sul pavimento di marmo giallino.

Sbarrò gli occhi, poi li richiuse di scatto.

“Maronna mia!”, esclamò, schiacciandosi alla parete. Il cuore gli batteva violentemente contro le costole, quasi volesse uscire dal petto.

Si costrinse a guardare in giro, tenendo gli occhi ben lontani dal punto in cui Don Fabrizio era stato massacrato di botte. Frugò in qualche cassetto, poi passò alla seconda porta.

Era lo studio di Belluomo: la sua scrivania, era ancora lì, ingombra di carte, e statue di santi. Intorno c’erano disseminati ovunque immagini votive, statuette della Madonna e di Padre Pio. Una acquasantiera di marmo in un angolo e un kit per l’estrema unzione abbandonato su un piccolo comò di radica.

Un crocifisso di legno, agganciato a una parete, montava una silenziosa guardia nella penombra, e poco dopo intravide anche dei paramenti sacri, su un attaccapanni, oltre a mobili vari coperti di polvere.

“E adesso?!”, si chiese frustrato.

La stanza puzzava di incenso e di calzini sporchi. A tentoni cercò un interruttore lungo il muro. Finalmente le sue dita lo trovarono e lo fecero scattare, inondando di luce la piccola stanza, dove era già stato anche lui, una volta, con un mal di denti che gli durava da un mese e che lo stava facendo diventare matto!

La scrivania e il resto della camera erano esattamente nelle condizioni in cui aveva temuto di trovarle, così iniziò a rovistare in giro, senza un filo logico, seguendo l’istinto.

“Dove può avere nascosto un quaderno del genere?!

Io dove lo metterei?”, si chiese.

Passò così la prima mezz’ora.

Niente.

Vinto dalla frustrazione, spense la luce e uscì in corridoio, quindi si allungò in cucina. Si avvicinò a una finestra e l’aprì per prendere aria. La puzza di chiuso e l’odore ferroso dell’emoglobina che regnavano nell’appartamento stavano diventando insopportabili. Sbirciando di là dalla strada notò che i due carabinieri stavano tornando, passeggiando con le braccia ciondoloni lungo i fianchi.

Accidenti.

Come avrebbe fatto adesso?

Se gli si mettevano alle calcagna, non avrebbe più avuto la possibilità di far sparire il quaderno.

Ma dov’era?!

Si sedette sconfortato su una sedia della cucina.

Quando, irrigidito, si alzò in piedi per passare a ispezionare la stanza da letto, sentì una fitta di dolore attraversargli la schiena e le gambe.

L’ansia e la frustrazione erano svanite, e in fondo al suo cervello si agitava una sola domanda: dove cazzo era il bagno?!

Arrivò in corridoio a braccia tese, come uno zombie, con le viscere in rivolta. La preparazione intestinale a cui si era sottoposto prima della colonscopia, adesso gli stava presentando il conto.

Gli faceva talmente male la pancia, che a malapena riusciva a respirare.

“Cristo!”, sbottò, slacciandosi al volo i calzoni e catapultandosi sul water.

Mezz’ora dopo era una spugna di sudore.

“Avvocato, avvocato Coniglio!”: il Maresciallo stava pestando la porta con forza. “Tutto bene lì dentro?!”, insistette.

“Eh, ah, eh… sì”, riuscì a rispondere Coniglio. “Tutto bene – si affrettò ad aggiungere fissando la porta chiusa – ho avuto un piccolo capogiro… sapete, le stanze chiuse, la polvere”.

“Ok, vi aspettiamo qui fuori. Dobbiamo andare, il tempo è scaduto!”, gli intimò il militare.

Cristo!

Il tempo era scaduto e lui non aveva trovato quel benedetto quaderno. Dov’era?

Dove poteva averlo nascosto Don Fabrizio?

Ma soprattutto: cosa avrebbe raccontato a Peppe Tatone?!

Chissà come le prendeva lui, le brutte notizie…

“Arrivo” rispose, girandosi ad afferrare la carta igienica. Un profondo sospiro. “Un minuto solo”, aggiunse, raccogliendo il primo strappo.

Quindi un secondo.

Ripiegando il terzo in due, si ritrovò per le mani una serie di nomi e di numeri, fitti fitti, scritti con una calligrafia ordinata e minuta.

Ecco dove era finito il quaderno di Don Fabrizio!

Tagliato a striscioline e mimetizzato nella carta igienica.

Per questo non riuscivano a trovarlo, né gli assassini – che avrebbero risolto in un falò il problema dei debiti – né tantomeno i carabinieri.

Studiò il foglietto: Martone-10.000; Eduardo-5.000; Frascarino-50.000, e continuava ancora: strappo dopo strappo, per più di mezzo rotolo.

“Cazzò – sbottò Coniglio – stavo per pulirmi il culo con più di un milione di euro!”