La notte del samurai

Siccome sono state dette e scritte un sacco di fesserie sull’affare del Samurai di Casapesenna, ho deciso – io che questa storia l’ho vissuta in prima persona – di scriverne un resoconto ordinato, in modo che non mi si possa venire a dire, un domani, di essermi inventato tutto, magari perché ero strafatto di coca o chissà cos’altro!

Dunque, a quell’epoca ero stato appena trasferito alla Squadra Mobile di Caserta, dopo più di dieci anni passati a Trieste. Vabbè, che ve lo dico a fare: uno shock culturale che nemmeno se fossi atterrato su un pianeta alieno, pieno di ometti verdi con la forfora viola.

E dire che – fino al concorso in Polizia e la prima destinazione in Friuli – ci sono sempre stato benissimo a Caserta. Ma tornato a casa, dopo tutti quegli anni, la città mi pareva piccola e provincialotta: poche cose da fare, poche donne da scopare, e sempre il rischio di una pistolettata in fronte.

Una palla, insomma!

Solo una cosa a Caserta era meglio che a Trieste: la coca. Mica quella schifezza che arrivava dalla Croazia…

E se ne trovava un sacco in giro. Quando ti veniva voglia di un tirino, bastava farsi un giro in Piazzetta Padre Pio a Marcianise, o magari allungarsi sulla Domiziana a Castel Volturno o Mondragone.

Perquisivi un paio di coglioni col berretto calato sugli occhi, e ne sequestravi almeno una decina di grammi: che poi sul verbale di arresto diventavano sette, chi volete che se ne importasse. Non i coglioni col cappellino che – anzi – gli facevi pure un piacere, perché così potevano almeno sperare di beccarsi le attenuanti generiche. E nemmeno il Commissario Barbato, che – lui – non l’ha mai fatto un sequestro di droga in vita sua e non saprebbe distinguere una striscia di cocaina da una macchia di sperma secco!

Oh, comunque io queste cose le sto dicendo, sì, ma che non si sappia in giro. Anche perché, all’epoca, mi avevano messo a fare coppia fissa con Michele Merola, che era appena stato promosso assistente capo, e ‘sta cosa della coca non voleva che si diffondesse, perché aveva deciso di diventare sovrintendente e magari anche ispettore. Come se stessero aspettando proprio a lui!

In ogni caso io, che sovrintendente ci sono già da tre anni, non me ne sono mai fottuto più di tanto, e il tirino – pure adesso – me lo faccio sempre volentieri.

Ma sto divagando…

Quella mattina, ricordo, era cominciata dieci minuti dopo che mi ero messo a letto. Avevo fatto il turno di notte e l’idea era quella di stravaccarmi almeno fino alle due. Solo che – nemmeno il tempo di sfilarmi la camicia – che mi chiama Merola sul cellulare. “Che vuoi?!” gli faccio atono. “Niente – mi dice – è che quando sono tornato a casa ho litigato con quella stronza di mia moglie e me ne sono andato sbattendo la porta. Sto venendo da te…”

“Da me?!”, chiedo saltando in piedi sul letto. E nemmeno oggi si dorme!

E vabbè – mi rassegno alla fine – senò a cosa servono gli amici? Così mi infilo un jeans e una camicia pulita e vado ad aspettarlo giù al portone. Michele arriva strombazzando nella sua Bmw nera di seconda mano. “Che si fa?”, gli chiedo montando in macchina. “Cappuccino e cornetto o andiamo a menare due tossici nella Villa Comunale?”.

“France’ – mi dice serio – mi sento un po’ nervoso stamattina… e se c’andassimo a fare una scopata? Magari così scarico un po’ la tensione…”

“Alle otto e mezzo del mattino?”, chiedo alzando un sopracciglio.

“Dici che non si può?”

“Beh, per potere si può… alla fine ogni momento è quello giusto per una scopata!”, rido. Come per il caffè.

Così Merola riparte sgommando, taglia un quartiere di villette, e prende l’Asse Mediano fino a Casapesenna, dove ci sono le puttane nere con le tette più grosse e – si sa – uno dei primi vantaggi di fare il poliziotto è proprio quello di scopare gratis!

Insomma, ci basta uscire dalla superstrada per adocchiare subito, vicino a una vecchia casa cantoniera, una bella nera, con le tette gonfie sotto una canottiera rosa così stretta che gliele fa sembrare il doppio. Quando ci vede accostare la ragazza ci accoglie con un sorriso a trentadue denti, che si smorza, però, non appena nota la paletta bianca e rossa appoggiata sul cruscotto. Ma – da esperta dell’antica professione – non si perde d’animo, e ci invita dietro una frasca: “Polizia tutto gratis, polizia tutto gratis!”, strepita come un’oca giuliva.

Visto che Michele Merola ha avuto una brutta mattinata, gli cedo volentieri la pole position, e mi allontano dalla macchina, per regalargli un minimo di privacy. Poi, in attesa che arrivi il mio turno, faccio due passi per il sentiero sterrato che fiancheggia la baracca e – quasi subito – mi sento pizzicare le narici, poi vengo investito da una zaffata di puzza dolciastra. “Sarà un cane morto”, penso.

Però, un po’ per la curiosità un po’ per l’istinto del poliziotto che non mi abbandona mai, mi affaccio su un canaletto di scolo e riesco nettamente a distinguere un piede nudo in mezzo all’erbaccia e i rifiuti. Torno subito alla macchina e tiro Michele per i capelli, mentre ancora se ne sta attaccato al culo della puttana. Vinco le sue proteste e – recuperata la pistola dal portaoggetti – gli spiego cos’ho trovato nel canale, così assieme ci buttiamo in mezzo alle frasche e tiriamo fuori il cadavere. Solo che, quando lo appoggiamo sul selciato, mi accorgo che gli manca un pezzo: il corpo nudo – di una donna di colore pure lei – è senza la testa, tranciata via di netto.

Così, mentre il mio collega va a chiamare i rinforzi, mi impegno in una caccia al tesoro che si conclude con un nulla di fatto. Della testa, nessuna traccia!

All’arrivo dei colleghi della mobile e dell’ambulanza sono tutti in fibrillazione. Il capo, Barbato, si avvicina e mi fa i complimenti per l’occhio che ho avuto, sorvolando sul fatto che – fuori servizio – eravamo nel bel mezzo del nulla, non si sa bene a far che. E’ un brav’uomo il capo. Solo che non c’ha fantasia: per lui si è trattato di un semplice regolamento di conti nell’ambiente della prostituzione africana, dove sesso, violenza e voodoo si intrecciano.

Ha cambiato idea solo quando – in meno di quindici giorni – le donne di colore senza testa, recuperate nelle campagne dell’agro aversano, sono diventate addirittura cinque e i colleghi della scientifica hanno ipotizzato che le capocce fossero state staccate con una spada molto affilata, con lama curva e a taglio singolo di lunghezza superiore ai 60 centimetri.

Una katana insomma!

Figuratevi i giornali, ci sono andati in brodo di ciuccio. Su tutte le testate hanno cominciato a sparare a zero sul primo serial killer casertano: il samurai di Casapesenna!

Così io e Merola che, per ovvi motivi, conosciamo benissimo la zona, ci siamo fatti subito dirottare sul caso. Anche perché, quando la notte che fai gli appostamenti ti annoi – da quelle parti – puoi sempre ingannare il tempo scroccando un pompino.

Però, dopo sette turni di notte a presidiare le campagne e le strade secondarie piene zeppe di zoccole, tra Casal di Principe fino a Villa Literno, già boccheggio: del samurai nessuna traccia e anche la compagnia di Michele Merola, mi pare oramai asfissiante.

Magari si sarà stufato, non avrà più spazio in casa per le teste, penso. O sarà andato a farsi affilare la spada. In ogni caso, alle tre del mattino, approfittando che Michele è caduto in narcolessi, esco dalla macchina per fare due passi. Mi avvicino a un vecchio secchio di ferro, dove un fuoco di legno catramato si sta spegnendo lentamente. Mi guardo intorno, ma non c’è nessuno: né puttane, né magnaccia. Strano – penso – di solito c’è sempre qualcuna a badare al fuoco.

Poi la mia attenzione viene catturata da una flebile luce in lontananza. Mi inoltro nel buio con circospezione, tagliando per un campo di broccoli. A dieci metri, protetto da una grossa pianta di noce, riesco a distinguere un gruppetto di uomini, rischiarati dai fari di una macchina in una sterrata. Sono cinesi, mi pare di capire, tutti e quattro e – al centro, in ginocchio – una ragazza nuda, probabilmente nigeriana, piange e si dispera. Il cinese più grosso, che mi pare il capo, indossa un kimono scuro e tiene in mano una lunga spada: “Questo no è tuo posto! Questo no è tuo posto!”, strepita il muso giallo. “Tu adesso molile… molile!!”, urla, alzando la spada e facendola vorticare sopra la testa, con l’intenzione di mirare al collo della poverina.

Decido allora di intervenire. Sto per saltare fuori dal mio nascondiglio quando, toccandomi il fianco, mi accorgo di aver lasciato – al solito – la pistola in macchina. Così, mentre cerco almeno un bastone in mezzo all’erba, un sibilo alla mia destra mi fa gelare il sangue, poi sento il cinese con la spada urlare, trafitto da una grossa lancia che gli spunta dal petto. Nemmeno il tempo di capire cosa stia succedendo che anche gli altri tre musi gialli vengono investiti da una pioggia di lunghe lance che li passa da parte a parte. Quindi, mentre la ragazza – miracolosamente illesa – si rialza e scappa via sculettando, dall’erba alta escono fuori almeno una decina di ricottari neri, in costume tradizionale masai, con una lunga tunica rossa stretta in vita da una cinta di cuoio, da cui pende una spada corta, e sandali ai piedi e braccialetti che tintinnano ai polsi.

Uno di loro, si avvicina al cinese con la spada, gliela strappa dalla mano senza vita, e la spezza in due, lanciando un urlo stridulo e terrificante.

Cazzo – penso – sono capitato giusto in mezzo a una guerra tra magnaccia cinesi e africani per il controllo del racket della prostituzione a Caserta.

Ritorno senza fiato alla macchina e sveglio Merola, che se la dorme ancora della grossa. “Corri – gli strillo – sta succedendo un casino!”.

Assieme, pistole in pugno, percorriamo di corsa il sentiero attraverso i broccoli fino alla sterrata ma – con mia enorme sorpresa – non troviamo più niente: né gli africani, né i cinesi morti. Nemmeno la macchina c’è più.

“Francesco, devi smetterla con la coca!”, mi canzona Merola e mi viene quasi il dubbio che abbia ragione se non fosse che – da quella notte – il samurai di Casapesenna se n’è andato ufficialmente in pensione e, con nostra grande soddisfazione, le puttane nere della zona hanno ripreso a lavorare a pieno ritmo.