La preghiera del sangue

Tutto cominciò giovedì 5 febbraio 2015, alle 7 e 20.

La signora Venera Iadicicco prima, e poi la vedova Zarrillo, avevano visto la statuina della Madonna – posta in una nicchia a sinistra dell’altare maggiore – lacrimare sangue.

Nella sua testimonianza del 6 febbraio, la signora Iadicicco raccontava: ”…alle 7.20 sono entrata in Chiesa, come faccio tutte le mattine, per accendere un cero alla Madonnina e sentire la Messa. Arrivata alla cappellina posta alla estremità della navata di sinistra, ho notato un’ombra scura sulla guancia della statua. Pensando al fumo delle candele o l’umidità della Chiesa, ho tirato fuori un fazzoletto dalla borsetta, visto che con la Beata Vergine sono in confidenza.

Avvicinatami per ripulirla, ho quindi visto che la Madonnina sul volto aveva un rivolino fermo sul lato destro. Sul lato sinistro, all’altezza del mento, invece, continuava a colare giù, come se la sostanza scura fosse schizzata via direttamente dall’occhio.

In un primo momento mi sono guardata attorno, preoccupata di vedere se ci fosse qualcun altro in Chiesa e che magari si fosse ferito e il sangue fosse finito sulla statua. Poi ho pensato allo scherzo di qualche miscredente.

Alla fine ho toccato col dito e ho sentito un brivido e poi una gran vampata di calore attraversami tutto il corpo. Mi sono riempita di una gioia incontenibile e ho iniziato a urlare e a piangere”.

A quel punto – attirati dalle grida della signora Iadicicco – erano accorsi prima la vedova Zarrillo e poi – infreddolito e ancora mezzo addormentato – il Parroco Don Hernando Mulan, colombiano.

L’avvocato Renato Coniglio alzò gli occhi dal verbale di sommarie informazioni.

Si grattò la nuca.

Sbuffò.

Dio sia benedetto, ma come c’era andato a finire dentro quella storia?

Che c’entrava, lui?!

Nemmeno andava più alla Messa, da quando aveva scoperto di essere allergico all’incenso!

Tutta colpa di Adelina.

Sempre lei!

Vecchia zitella, che – da quando era arrivato alla Chiesa di San Felice – era diventata pappa e ciccia con questo prete colombiano, Don Hernando.

Nell’ultimo periodo – a metà del pomeriggio – aveva pure cominciato a lasciarlo da solo allo studio, uscendo senza sbattere e scendendo le scale di soppiatto, come un topo. Diceva che andava alla Messa vespertina, e così lui era costretto a rispondere da solo al telefono e aprire la porta. Anche due o tre volte in un giorno!

Bizoca.

Quando la fregna si fa stanca, la donna si fa santa!”, diceva sempre suo papà.

Quanto era vero!

Appoggiò il fascicolo sul tavolo e si lisciò il riportino scuro con una mano, secca e grinzosa come un artiglio: “Adelina!”, chiamò.

Niente.

Adelinaaaa!!!”, urlò.

Lavativa.

Magari si stava dicendo un altro rosario – invece di fare le fotocopie – tanto per assicurarsi un posto in prima fila, in Paradiso.

Tra Sant’Anna e Santa Rita.

Sentì finalmente il ticchettio isterico dei passi avvicinarsi in corridoio. “Avvocato, avete chiamato?”, chiese Adele affacciandosi nella fessura della porta.

La fissò torvo: “Naaaa… stavo solo cantando!”, rispose seccato.

Ah, bene.

Allora ripasso più tardi”, sorrise la donna.

Adelì, ma sei scema?!

Vieni qui, entra e siediti”, le disse, indicandole la sedia davanti alla scrivania. “Dobbiamo parlare”, aggiunse con tono grave.

La signora Adele si fermò un istante sulla porta, era piccola e pallida. Il vestito di lana pesante la infagottava fino al collo come un sacco della spazzatura. Aveva i capelli tinti legati in uno chignon demodé e l’espressione incuriosita e allo stesso tempo terrorizzata.

Entrò nello studio titubante: la luce del tramonto che filtrava da una finestra a lato del tavolo di noce le illuminava gli occhi cerulei e il naso affilato, mettendo contemporaneamente in evidenza la polvere che si era accumulata su uno schedario di acciaio. Si sedette al rallentatore, facendo scricchiolare le ginocchia.

Allora?!”, chiese Coniglio, stendendo la schiena sulla poltrona similpelle.

Allora cosa?”, rispose la donna, spalancando due labbra sottili come una cerniera.

Tu che ne pensi?!”, chiese ancora l’avvocato, indicando con gli occhi il fascicolo che teneva sul tavolo. Sulla costa aveva segnato a pennarello nero: Mulan Hernando – Procura di Santa Maria Capua Vetere.

Adele lanciò un’occhiata ai fogli, poi distolse lo sguardo inorridita: “La verità?

Io non ci credo”, sospirò. Poi riprese, incrociando le braccia sul petto, piatto e floscio come un creme caramel: “Cioè, non può essere stato Don Hernando, lui parla solo di Gesù, di Maria, dei Santi.

Se lo aveste conosciuto prima, avvocato: è taaanto una brava persona!

È stato pure missionario in Africa, lo sapete?!

Poi viene qua – dopo avere visto tutta quella sofferenza laggiù – e che fa?

Si mette a uccidere le persone?!

Naaaa!

Non è possibile!”, strinse le labbra piccata.

Già, non quadra…”, concordò Coniglio, poi sbuffò forte e poggiò i gomiti sulla scrivania: “Vabbè – la congedò – tu vammi a fotocopiare quell’atto di citazione per domani, che di cause a gratis per oggi siamo al completo.

Io, intanto, cerco di capirci qualcosa in tutta questa faccenda”, aggiunse, pescando il verbale di fermo dal fascicolo come una trota in uno stagno.

Risaliva a due giorni prima.

Don Hernando era stato arrestato alle cinque del mattino, su ordine del Procuratore Gianpaolo Porreca. Un magistrato d’esperienza, che di solito non faceva cazzate, a parte avere sposato una collega di vent’anni più giovane, bionda e con le tette rifatte.

Ad incastrare il prete era stato il DNA.

Dopo i fatti del 5 febbraio, infatti, la voce del miracolo si era sparsa come un fuoco nell’erba secca di agosto e in men che non si dica, erano iniziati ad arrivare fedeli e pellegrini da tutta Italia.

Preoccupata, la Curia di Caserta, aveva mantenuto un profilo basso, per non creare false illusioni, ed essere accusata di speculazioni.

E qui entrò in scena Don Hernando.

Il prete, infatti, nonostante le raccomandazioni ricevute dalle alte sfere ecclesiastiche – che lo avevano invitato a mantenere la calma e un atteggiamento neutro – si era messo subito di traverso: nei suoi lunghi sermoni domenicali aveva cominciato a parlare di Apocalisse.

Invitava i fedeli, che avevano iniziato ad accorrere in Chiesa sempre più numerosi, a pentirsi dei propri peccati, che tanto avevano fatto piangere la Mamma Celeste.

Inoltre – senza ordine alcuno – aveva spostato la statua della Madonna sull’altare maggiore, proprio davanti alla prima fila di scranni, relegando in un angolino quella di San Felice, patrono della città.

Una domenica, aveva addirittura tentato di convertire a colpi di cero pasquale, un gruppetto di vecchie zitelle che aveva trovato posto tra i primi banchi.

Pentitevi! Pentitevi!!”, aveva urlato alle donne, che erano scappate via impaurite.

Preoccupato, quindi, dalla piega che stavano prendendo gli eventi, il Vescovo di Caserta – Sua Eccellenza Bellofiore – era dovuto intervenire personalmente.

Per scongiurare imbrogli ed ipotesi di sciacallaggio, infatti, il Vescovo aveva autorizzato una serie di indagini più approfondite, compreso il prelievo e l’esame del DNA sul sangue raccolto dal volto della Vergine.

Fu l’inizio della fine.

L’esame dei campioni raccolti, infatti, non lasciò dubbi: il sangue era quello di una ragazza scomparsa qualche giorno prima del presunto sanguinamento della Madonnina e che frequentava la canonica e la parrocchia.

Una tale Elisa Landolfi, ventidue anni, estetista.

****

La Casa circondariale si trovava sull’Appia, a due chilometri dal centro di S. Maria C.V.. Superato un ponte e un paio di incroci pericolosi, si trovava sulla destra. Appena svoltati, l’attenzione era immediatamente catturata da austeri blocchi di cemento color antracite, protetti da un massiccio muro di cinta e cancelli d’ingresso tinti di verde. Proprio di fronte, un ampio parcheggio a raso ospitava su due lati le auto degli avvocati e dei parenti in visita.

Coniglio – lasciata la sua Kadette in mezzo a due Mercedes, nel posteggio riservato ai legali – si avviò all’ingresso, mescolandosi ad una famigliola, stracarica di pacchi e buste piene di biancheria pulita.

La guardia lo individuò subito: “Gli avvocati di qua!”, disse duro, indicandogli un secondo accesso, sotto una pensilina, dove non c’era fila.

Coniglio si chiese come avesse fatto a riconoscerlo subito nella calca, poi diede un’occhiata alla borsa di pelle: “Ah, è per questa!”, sorrise.

Il secondino lo squadrò serio per qualche secondo, soffermandosi sulla cravatta lenta e la vecchia giacca a quadretti, che degli anni ’80 si ricordava non soltanto il modello, poi scoppiò in una risata: “No – disse – è che i parenti dei detenuti si mettono tutti in tiro quando vengono a colloquio, col vestito della festa. Vogliono dimostrare ai mariti e ai genitori, che va tutto bene lì fuori!”.

Coniglio lo guardò risentito.

Poi si sistemò il nodo e la giacca, che a malapena riusciva a riempire.

Il secondino si asciugò i baffi e gli tese una mano: “Si scherza, eh?!”, finse di scusarsi. “La vita è dura qui dentro, bisogna prenderla con filosofia…

Prima volta in carcere”, gli chiese ancora.

Sì”, ammise Coniglio.

La guardia gli sorrise comprensivo: “All’inizio prende in gola, poi però passa…”.

Bene!

Come la metteva adesso con la sua claustrofobia?!

Avrebbero dovuto trascinarlo fuori in ambulanza.

Sicuro!

Dopo il controllo dei documenti e tre quarti d’ora di attesa, Coniglio fu scortato in una saletta stretta, dove Mulan lo stava aspettando.

Era seduto a un tavolo di ferro, col ripiano di formica bianca. Indossava una tuta scura e appariva molto provato. Quando lo vide entrare il suo sguardo si illuminò di una scintilla di curiosità e di speranza. Si alzò in piedi e gli tese una mano scura e sudata. L’avvocato la strinse con una smorfia, poi se l’infilo in tasca, per provare ad asciugarla senza dare troppo nell’occhio.

Don Hernando era un uomo alto, di una quarantina d’anni, con i capelli scurissimi, solo un po’ grigi sulle tempie. Spalle grandi e torace ampio. Sembrava una via di mezzo tra Antonio Banderas e uno spacciatore messicano.

Magari per questo aveva la Chiesa sempre piena di zitellone e vecchie vedove!

Alla fine si sedettero entrambi ai lati opposti del tavolo, in silenzio.

Coniglio non lo conosceva, aveva accettato il caso pro bono, per fare un piacere a quella babbiona della sua segretaria. Dopo qualche istante di imbarazzo prese l’iniziativa: “Come vi state trovando?

Vi fanno mangiare?”, chiese.

Insomma…”, sospirò il prete.

La carne è dura?”

Più o meno…”

La pasta? Scotta?”, si informò ancora.

Il sacerdote lo guardò perplesso: “Avvocato volemos ablar de esto omicidio o volete el menù del restorante?!”, sbottò risentito.

Coniglio rimase immobile, come una statua di sale: “Ehm, sì… era solo per chiedere”, provò a discolparsi, con l’espressione di uno che aveva pestato una cacca in strada. “Va bene, va bene: avete ragione voi.

Vediamo che sta succedendo”, disse l’avvocato mettendo da parte i convenevoli e tirando fuori il fascicolo dalla borsa. Lo sbatté sul tavolo, con un tonfo sordo: il colloquio era ufficialmente iniziato.

Allora, padre, chi era questa Elisa?”, esordì con tono grave, tirando un lungo sospiro.

Elisa…

Elisa era una mi parocchiana…”, sospirò il sacerdote, stropicciandosi le mani. “Una muy buena ragazza. Molto cristiana, brava, lavoratora”.

Quando l’ha conosciuta?”, chiese Coniglio, con fare professionale. In realtà, stava leggendo di sottecchi le domande che si era appuntato su un foglietto che aveva mimetizzato tra il fascicolo e la borsa di pelle.

C’aveva lavorato tutta la notte, per fare bella figura col prete, scomodando anche un vecchio trattato di procedura penale e un paio di gialli di Agatha Cristie.

Don Hernando rispose pronto: “Cuando yo he arrivato a San Feliz, a octobre!

Elisa era muy buena ragazza…

Lei veniva a fare pulizie, quando no trabacava, poi me portava qualcosa da mangiare”.

Frequentava la canonica?”

Seguro!

Lei muy buena, yo solo, lei me aiutava”.

C’erano anche altre ragazze che la aiutavano a fare i lavori di casa?”, insistette l’avvocato.

Il prete stette a riflettere per qualche secondo: “Sì, una, dos volte è venuta anche un’altra amica sua, Lucia, e poi – esitò un istante – las monacas”.

Coniglio si tirò indietro sulla sedia, quindi diede un’altra sbirciatina alle domande: “Quando ha visto Elisa l’ultima volta? Era stata a casa sua anche il giorno che è scomparsa?”

NO-NO-NO-NO!”, esplose il prete, saltando sulla sedia.

L’avvocato lo guardò sorpreso: “Si calmi Don Hernando, stia tranquillo.

Io sono dalla sua parte, questo non è un interrogatorio, sto solo cercando di capirci qualcosa per poterla aiutare… altrimenti che gli andiamo a raccontare domani al Gip della convalida?

Allora, ricominciamo: dalla denuncia dei genitori risulta che Elisa non è rientrata a casa mercoledì notte. Stiamo parlando della sera prima del sanguinamento – chiamiamolo così – della statua.

Lei quando l’ha vista?”

Il sacerdote sbuffò forte e tornò a sedersi. “Io non he visto Elisa por una semana!

Lei venuta ultima volta domenica, a Messa, poi non es venuta più, nemmeno per un piatto de pasta. Se non era per Suor Cora e Suor Celestina, tenevo los scarrafones in bagno!”

Suor Cora?”

Sì, es una suora filipina… muy buena ragazza. Molto cristiana, brava, lavoratora”.

Seee, vabbè, ho capito!”, pensò Coniglio: “Questo se le è chiavate tutte e due!”

****

Il GIP diede una scorsa al fascicolo che aveva davanti.

Era un uomo basso e un po’ pingue, addosso aveva un completo blu scuro che ricordava i grembiuli della scuola di una volta. Si chiamava Grimaldi, come quello delle navi, e magari era pure parente.

Don Hernando – si schiarì la voce con un colpetto di tosse secca – so che questo è un momento molto penoso per voi e cercheremo di essere veloci, tuttavia è mio preciso dovere farvi qualche domanda.

Vediamo, forse è più semplice che, per cominciare, ci descriviate voi i rapporti che avevate con la signorina Elisa…”, sorrise.

Don Hernando si illuminò.

Anche Coniglio si rilassò.

Questo giudice era proprio una brava persona, mica la iena che gli avevano descritto!

I colleghi esagerano sempre.

Perdono le cause e poi cercano una scusa!

Il prete parlò con chiarezza e senza esitazioni, con lo stesso tono pacato che aveva usato con l’avvocato il giorno prima e che adesso si sforzava di adoperare per coprire l’emozione e un po’ di ansia.

Descrisse il suo rapporto con Elisa, la gentilezza che le faceva occupandosi di lui, che era ovviamente solo e incapace anche di cuocersi un uovo.

Era anche il suo confessore personale e la sua guida spirituale, precisò inorgoglito Don Mulan. “Muy brava ragazza”, ripeteva sempre.

Il GIP continuò a condurre l’interrogatorio con cortesia. Cercando di soppesare la verosimiglianza della versione fornita da Mulan. “Chi ha le chiavi della Chiesa?”, chiese ancora Grimaldi, protendendosi verso l’interrogato.

Solo yo!

Giuro”, proclamò il prete e solo allora si rese conto di aver detto una cazzata.

L’interrogatorio durò più di due ore e – alla fine – andò malissimo.

Don Hernando non solo non riuscì a fornire al GIP uno straccio di alibi, ma soprattutto non fu in grado di spiegare come aveva fatto il sangue di Elisa a finire in Chiesa, se era l’unico a possedere le chiavi.

Il P.M., nella richiesta, aveva adombrato una relazione tra il sacerdote e la ragazza che lei non aveva più potuto o voluto nascondere (magari perché era rimasta incinta), da qui un eccezionale litigio e l’omicidio.

E il corpo?

Buttato in un pozzo, o fatto a pezzi e smaltito nella spazzatura.

E il sangue sulla statua?!

Una specie di penitenza… un’offerta.

Un olocausto.

Valli a capire gli assassini!

Alla fine il GIP convalidò il fermo e spedì il sacerdote in carcere, scrivendo – nella sua sanguinaria ordinanza – che Hernando Mulan era una persona malvagia e pericolosa, che si profittava della tonaca per adescare ragazze giovani e belle. Che era un assassino a sangue freddo, che agiva con crudeltà e decisione, e che il pericolo che, una volta fuori, ci riprovasse era troppo grande anche solo per concedergli gli arresti domiciliari.

Alla faccia della brava persona.

Quel giudice era un vero boia!

****

Era passato un mese dall’arresto di Don Hernando.

Il corpo di Elisa non era stato ritrovato, ma intanto il prete era rimasto in carcere, accusato dell’omicidio della ragazza e dell’occultamento del cadavere.

Pure il Riesame aveva confermato!

Coniglio aveva perso due chili nello sforzo di trovare una soluzione. Oramai, anche le canottiere gli ballavano addosso come palandrane.

Non c’era via di uscita.

E – in debito di energie – non riusciva nemmeno a pensare lucidamente. Decise che un caffè gli sarebbe stato di conforto, almeno avrebbe scongiurato una crisi ipoglicemica: ”Adelina!”, chiamò.

Silenzio.

Adelinaaa!!”

Nulla.

Dove cavolo era andata di nuovo?!

Guardò l’orologio: erano quasi le sette di sera. Dove si poteva andare a quell’ora in un paesino come quello?!

A ubriacarsi?

No, non era il tipo.

A uomini?

E chi se la faceva?!

A fare shopping?

Insomma, con lo stipendio che le dava?!

Niente: non c’era soluzione al mistero della scomparsa di Adelina.

Magari era pure morta.

Magari!

Decise, in ogni caso, che c’avrebbe pensato più tardi, e si avviò con passo indolente nello sgabuzzino vicino alla sala d’aspetto.

Su un ripiano di abete, tra il fax e una vecchia fotocopiatrice a manovella, c’era un piccolo fornellino elettrico, con la resistenza bruciacchiata e incrostata di calcare. Afferrò la macchinetta e andò a sciacquarla alla meglio in bagno, quindi riempì il serbatoio con l’acqua minerale e la polvere di caffè. Accese il fornelletto e si schiacciò a una parete, aspettando che salisse.

In silenzio.

Il gorgoglio del caffè gli impedì di sentire i passi leggeri alle sue spalle.

Avvocato!”

Coniglio si strinse una mano sul cuore.

Si voltò di scatto, all’origine di quella voce stridula e irritante: “Adelina!”, gridò. “Ti possino uccidere!

Mi vuoi fare morire d’infarto?!”

La donna abbassò la testa costernata: “Ma… ma io…”

L’avvocato tirò il fiato e prese a fissarla duro: “E si può sapere dove sei stata?!

E’ un’ora che ti chiamo!

Con tutto quello che teniamo da fare qua dentro, te ne vai a fare shopping?”, la sgridò.

La vecchia segretaria sbarrò gli occhi: “Shopping?”, chiese perplessa.

No-o?

E allora sei stata al bar!”

Nemmeno!”, rispose.

Coniglio – scartando decisamente l’ipotesi di un fidanzato – la fissò indispettito: “Allora si può sapere dove diavolo sei stata?!”, sbottò.

A Messa!”, rispose candidamente Adelina.

A Messa?!

Ma se Don Hernando sta in carcere!”

E allora?!

E’ venuto un altro prete: Don Carlo!”, strinse le labbra in una piega dura.

Ah…”, non c’aveva pensato.

Non si può chiudere una Chiesa a lungo.

La donna si riprese dal richiamo e lo scostò con un mezzo spintone: “Su, toglietevi di mezzo, che il caffè si brucia e ve la prendete con me.

Andatevene nello studio, lo zucchero e ve lo porto io di là”, sorrise.

Coniglio non rispose.

Era rapito da un pensiero.

Allora?

Quanti cucchiaini – insisté Adelina – uno o due?”, sorrise.

L’avvocato la guardò strano.

Senza rispondere.

Nessuno”, disse alla fine.

E il caffè lo bevete amaro?

Avete di nuovo la glicemia alta?”, chiese preoccupata.

Coniglio uscì in corridoio e arpionò il cappotto da un attaccapanni all’ingresso e si arrotolò la sciarpa intorno al collo. “Niente caffè, devo uscire…”, disse aprendo la porta.

Adesso? E dove dovete andare?!”, domandò Adelina sorpresa.

In Chiesa!”, e chiuse la porta.

****

Coniglio scorse la propria immagine riflessa in una delle vetrate della navata laterale. Fuori era buio pesto, ma all’interno le luci e le candele non erano ancora state spente, perciò la vetrata rifletteva come uno specchio.

Aveva le guance scavate e un riportino scuro che gli correva da un orecchio all’altro. Era alto – quasi uno e ottanta – ma magro come un chiodo.

Benché la Chiesa sembrasse deserta, aveva trovato il portale socchiuso. Aveva spinto un’anta e si era infilato dentro, confidando di poter scambiare due parole col nuovo parroco.

Attraversò la prima navata in silenzio, segnandosi devotamente quando ebbe a passare di fronte ad una cappella con la statua di Sant’Antonio da Padova: faceva tredici grazie al giorno e a lui ne sarebbero bastate anche una o due!

Procedeva quasi a tentoni: la chiesa era buia e fredda, proprio un toccasana per i suoi reumatismi. Sentì le ossa scricchiolare ad ogni passo, mentre raggiungeva l’abside. In alto, nel buio della volta, scorse la sagoma di un piccione, tubare sfrecciando tra i travetti.

Sperò tanto che non decidesse di fargliela in testa!

Arrivato all’altare non trovò la statua della Vergine. Al suo posto, era tornato San Felice, che si era riappropriato dei suoi spazi con grande soddisfazione.

La Madonnina – ripulita del sangue di Elisa – era tornata pure lei nella cappellina d’origine, a sinistra dell’altare maggiore. Un mazzo di fiori freschi infilati in un vaso, rappresentavano una specie di messaggio di scuse per averla relegata di nuovo in un angolo.

Si avvicinò alla statua, per esaminarla meglio. Non era rimasta nessuna traccia del sangue, come se tutto quanto non fosse mai successo.

Stava per avviarsi alla sagrestia, in fondo alla Chiesa, quando la sua attenzione fu attratta da un lamento.

Stette in silenzio, tenendo il fiato.

Un altro gemito, strozzato.

Si voltò verso l’origine del suono: la luce delle candele rivelava una scala di pietra che – da un angolo dell’altare – scendeva sottoterra.

La cripta!”, pensò.

Che faccio?

Scappo?!

Sì.

No…

Boh!”.

Meccanicamente – o magari per un innato istinto di sopravvivenza – l’avvocato tornò di corsa verso l’uscita.

Iperventilava.

Giunto sulla soglia, però, vinse la tentazione di darsela a gambe, tornò indietro e afferrò una candela dalle offerte di Sant’Antonio.

Si scusò col Santo, facendosi velocemente un altro segno della croce, e fece ritorno alla cripta, rosso in viso e senza fiato.

Decise di scendere, malgrado la paura e la claustrofobia gli paralizzassero le gambe. Da piccolo era rimasto chiuso in un armadio e da allora aveva sempre avuto il terrore degli spazi angusti.

Quando ebbe superato la stretta scala a chiocciola che scendeva per tre o quattro metri, si ritrovò in una stanza ampia non più di una decina di metri quadrati. L’aria era stantia e Coniglio cominciò a sentirsi mancare il fiato.

La luce della candela metteva in risalto l’umidità sulle pareti, viscide come burro e un lampadario arrugginito pendeva buio e sinistro dal soffitto.

Dall’altro lato della stanza, l’avvocato notò un’altra porta, era socchiusa e dalla toppa usciva una grossa chiave di ferro.

Si avvicinò di soppiatto. I lamenti sembravano provenire da lì dentro.

Quando si è in ballo, bisogna ballare!”, dichiarò per farsi coraggio. In realtà aveva cominciato a tremare come una foglia e il cappotto sembrava una vela in mezzo alla tempesta, sebbene non ci fosse uno spiffero di vento lì sotto.

Si avvicinò alla porta e appoggiò il palmo sulla superficie fredda di legno, ma quella non si mosse. Resistette impudente ai suoi sforzi, fin quando non si mise a spingere forte con una spalla.

Solo allora l’uscio si aprì lentamente, scricchiolando.

Coniglio si affacciò nella seconda stanza, puntando la candela.

La camera era ampia, con un colonnato su due lati e un sarcofago di marmo in fondo. Altre tombe erano state scavate nelle pareti di pietra. L’umidità e gli insetti avevano reso le scritte sulle lapidi quasi irriconoscibili.

Una ragazza era a terra, in mezzo alla sala, riversa in una pozza di sangue, che le zampillava da uno squarcio sulla gola.

Si avvicinò di corsa, rischiando anche che la candela si spegnesse: “Elisa!

Elisa!”, gridò Coniglio.

Vincendo la repulsione, le strinse una mano attorno alla gola, per tamponare la fuoriuscita di sangue. Poi cercò in giro qualcosa con cui fasciarla stretta, come aveva visto fare nei film americani.

Dio sia benedetto: ma come ci era finita là sotto?

Chi ce l’aveva portata e – soprattutto – com’è che la polizia non l’aveva trovata prima?!

Elisa! Elisa!”, continuò a ripetere Coniglio boccheggiando. “Resisti!”, disse, fasciandole la gola con la sua sciarpa di lana grigia.

Finalmente la ragazza aprì gli occhi. Lo guardò con espressione terrorizzata.

Elisa – cercò di rassicurarla – stai tranquilla, ci sono io. È tutto finito, ti porto in ospedale, starai meglio…”

Eh-Elisa? … – sospirò la ragazza -.

Io so-ono Lucia”, gorgogliò, prima di perdere di nuovo conoscenza.

Lucia?

Chi è Lucia?!”, strepitò Coniglio.

Ma che stava succedendo lì sotto?

La testa prese a girargli.

Lucia è putanella!

Lei volere rubare me Don Carlo, come altra putanella rubato me Don Hernando!”.

La voce proveniva dal fondo della stanza, dietro una colonna coi capitelli a forma di mostri medievali, che – come una specie di monito per i fedeli di tutte le epoche – sorreggevano il soffitto di pietra.

Lì per lì Coniglio pensò di essere già morto. Di aver avuto un infarto, o uno shock anafilattico dovuto all’incenso, che lo aveva ucciso.

Non era particolarmente religioso, ma quella doveva essere una specie di esperienza mistica. Una anteprima dell’Inferno in cui sarebbe finito.

Invece era vera.

La figura si spostò da dietro la colonna e la luce tremolante della candela ne illuminò il corpo minuto e i piccoli occhi a mandorla.

Non era alta più di un metro e mezzo, coperta da una tonaca grigia e un velo nero sui capelli.

Suor Cora!”, gridò Coniglio.

La monaca lo guardò sorpresa.

Chi è tu?!

Come sa mio nome?”, chiese.

Coniglio la squadrò, guardandola dall’alto in basso. Fece due calcoli e realizzò che una donna così minuta non doveva essere troppo pericolosa: “Sono il tuo incubo peggiore…”, sorrise beffardo.

Quante volte aveva desiderato dirlo, da quando aveva visto per la prima volta Rambo da ragazzo. Nella vita, prima o poi, le piccole soddisfazioni arrivano sempre!

Afferrò un candelabro di ottone dalla tomba di un monsignore, che giaceva incassata in una parete, e si avvicinò minaccioso alla religiosa.

Su, stai buona – disse con tono intimidatorio – così non ti faccio troppo male…”

La monaca si mise in guardia, tirandosi su il saio e scorciandosi le maniche. Protese le mani in avanti, con le dita rigide.

Aveva i polpastrelli della destra insanguinati.

Sei tu che ti fa male – sorrise sarcastica – come quela putanella là!

Mio papa campione di Escrima!”, sbottò a ridere. “Lui insegnato me arti marziali filippine, quando io piccola, prima diventare suora”.

Accipirigna!”, pensò Coniglio.

Era fregato!

Non aveva mai fatto a botte in vita sua, nemmeno alle elementari. La sua filosofia di vita gli aveva sempre suggerito che la miglior difesa è la fuga.

Ragioniamo – provò allora a calmarla – tu sei una suora, Gesù piange!

Dai, troviamo una soluzione…

Saliamo su, chiamiamo un’ambulanza. Se anche quest’altra ragazza muore, tu finisci in galera per sempre!”

Suor Cora scoppiò a ridere: “Io suora!

Io già in galera!”, disse sarcastica.

E pure questo era vero…

Ma dai!

Che ti ha fatto questa poverina?!”, cercò di avvicinarsi sorridendo candidamente.

La monaca abbassò lo sguardo sul corpo della ragazza, poi lo rialzò e lo indirizzo su Coniglio, con aria di sfida: “Lei volere fare amore con Don Carlo.

Solo io fare amore con Don Carlo.

Lui mio!

Anche Elisa volere fare amore con Don Hermano, e io dato una bella lezione, quando lei venuta una sera a lavare pavimento di Chiesa.

Solo – dopo che ha finito di rompere sua testa dura e chiusa dentro tomba qui sotto – me dimenticato pulire statua Madonna schizzata.

Quela putanella avere troppo sangue e troppo caldo”, fece una piccola smorfia.

Nella stanza calò il silenzio.

Coniglio trattenne il fiato.

Gli avversari si stavano studiando, soppesando le mosse e le contromosse. Alla fine, l’avvocato strinse forte il candelabro, preparandosi a sferrare il primo colpo, con la forza che gli veniva dalla paura, più che dal coraggio.

Chi cappero glie l’aveva fatto fare a scendere lì sotto?!

Ma non poteva semplicemente chiamare i Carabinieri?

È il loro lavoro, no?

Che li pagano a fare allora?!

Stava ancora maledicendo se stesso e la sua smania di voler fare l’eroe, quando, – all’improvviso – sentì un colpo.

Sordo.

Poi un grido soffocato.

Che succede?!”, urlò, guardandosi intorno terrorizzato.

La monaca crollò a terra, con un tonfo secco. Un rivolo di sangue iniziò a farsi largo da sotto il velo, rigandole il volto olivastro.

Alle sue spalle spuntò la figura smunta di un vecchio rubizzo, con un grosso naso a patata e le orecchie pelose. Aveva un grande Messale rilegato, stretto tra le mani, e li stava fissando tremolante.

Sembrava a malapena reggersi in piedi.

Dio sia Benedetto – ringraziò Coniglio – come ci ha trovati? Chi l’ha mandata qui sotto?!”

Il vecchio sorrise e si appoggiò a una colonna: “Beh, io ci vivo qui, adesso.

Io sono Don Carlo”.