Lacrime Napulitane

Lo specchio da pub – sulla parete di fronte – rifletteva la sala vuota alle sue spalle, al massimo della sua schifosa solitudine: pareti macchiate di nicotina, pavimento pieno di crepe, sedie malandate.

Ingoiò per intero un crocchè di patate e rimase con la forchetta fissa a mezz’aria, come la bacchetta di un maestro d’orchestra in un attimo di crescente tensione.

Sorrise amaro: orchestra

Ce l’avesse avuta ancora un’orchestra!

Oramai non lo chiamavano più nemmeno per un battesimo, sospirò malinconico.

Era finita l’epoca in cui il suo eccezionale vibrato incantava le spose e faceva sciogliere in lunghi applausi i parenti vestiti a festa.

Bei tempi, quelli.

Bei tempi che furono!

Ma com’è che era finito tutto?

Eppure ce li aveva ancora nelle orecchie gli urletti striduli delle donne, quando intonava il suo cavallo di battaglia, la toccante “Primm’ e te spusà”, del Maestro Pippo Gargiulo. O le lacrime – grosse come ciliegie mature – che rigavano anche le guance degli uomini più duri, allo straziante ritornello di “‘A voce ra’ mamma”.

E – che cazzo! – a fare questo non erano mica capaci tutti.

Bisognava tenerci il dono, per una cosa del genere. Una voce calda, malinconica, vibrante, che ti viene dritta dal cuore e ti torce lo stomaco. E, sotto, naturalmente, due coglioni grandi e grossi come melograni. Non basta mica aprire la bocca e dare aria ai polmoni!

Però, improvvisamente, tutto era finito, archiviato: kaputt!

Era passato di moda, semplicemente.

Nel giro di due o tre anni, le nuove leve della canzone neomelodica – con quelle creste gelatinate ritte sulla testa, e i jeans col cavallo che gli arrivava ai polpacci – avevano monopolizzato la scena e si erano mangiati tutto: matrimoni, feste di piazza, comunioni.

E a lui, non era restato che qualche piano bar, all’inizio, in quel ristorante – l’Hotel Pisanti – dove i vecchi andavano a ballare il latino-americano il venerdì sera.

Poi nemmeno più quello.

Tutti, lentamente, si erano dimenticati di lui…

A malincuore, era stato costretto a licenziare i suoi musicisti e si era rimesso a fare il lavoro di sempre: il tubista, l’idraulico, con la certezza, però, che – prima o poi – sarebbe tornato sulla cresta dell’onda.

Già, se lo sognava tutte le notti: Ladies and gentlemen, questa sera, per voi, dopo una lunga assenza dalle scene… il grande… l’inimitabile: Genny Califanoooo!

Applausi.

Sì, sarebbe andata proprio così.

Il talento paga sempre, e torna sempre a galla, si diceva risoluto.

Però, queste serate malinconiche, da solo, in una pizzeria di terz’ordine, non è che gli davano troppa fiducia nel futuro.

Affogò la solitudine in un bicchiere di vino rosso, poi – aguzzando le pupille sullo specchio – notò un rapido movimento alla porta.

Due energumeni, uno con una giacca di pelle scura, l’altro con una larga camicia a fiori, entrarono nella bettola spopolata. Li guardò di sottecchi e un brutto pensiero gli si accese in testa quando vide quello con la giacca indicarlo al compare con un cenno aggressivo della testa.

Li conosceva quei due, almeno di vista… erano scagnozzi di Salvatore Pagano, il Grande Capo, il Boss del quartiere.

E che cazzo volevano da lui?!

Sentì il cuore battergli in petto come un dannato, quando vide i due scimmioni avvicinarsi al suo tavolo col passo pesante di una locomotiva, mentre il pizzaiolo scompariva fulmineo dietro il bancone, come una lucertola in una crepa.

“Sei tu Califano?”, disse il primo, stringendo le labbra in una piega dura.

Annuì.

“Ma canti ancora?”

Deglutì.

“E allora famm’ verè!”, gli disse, lanciando un sorrisetto ironico a quello con la camicia a fiori.

Il povero Genny strabuzzo gli occhi.

T’aggia ritt’ canta, Califà. Canta!”, ringhiò, scostando una sedia dal tavolo, e crollandoci sopra.

Califano controllò il respiro, ingoiando aria a piccoli sorsi, poi sempre più profondi. Tenne il fiato, chiuse gli occhi, quindi si librò in volo: “Quantu tiemp’ che è passat’, viene ancor’ a me tentà…

E’ ‘na storia ormai finita, proprio quasi un anno fa…”, la sua voce calda, appassionata, riempì la pizzeria.

Riprese fiato: “Vai via!

Quante volte mi hai detto non provo più niente.

Vai viaaaaa!

M’è ‘mbrugliat stu core, ‘o crerev a st’ammor…

L’applauso dello scimmione, interruppe la sua inedita esibizione. “Ebbrav’ Califano… allora t’arricuord’ comm’ se canta!”

Califano sorrise amaro.

“E so’ arricorda pure Don Salvatore…”, gli strizzò l’occhio.

Il solo nome del Grande Capo, gli fece zampillare il sudore dalle ascelle come una fontanella, manco stesse sul palco del Madison Square Garden.

Il gorilla si schiarì la voce con un colpo di tosse, senza mettersi la mano davanti alla bocca: “Don Salvatore avrebbe piacere – sottolineò calcando per bene le ultime sillabe – che cantassi al matrimonio della figlia Geppina, che sposa domenica prossima…”

“Io?”, riuscì a dire Califano.

“Sì… dice che cantasti alla festa dei quarant’anni di matrimonio dei genitori, e questa cosa se la porta nel cuore da allora.

Lo sai com’è Don Salvatore… un sentimentale!”

Eh!

Un sentimentale che si dice abbia fatto uccidere a colpi di kalašnikov almeno cinquanta persone, un altro paio squartate e una decina sciolte nella calce viva in un cantiere di villette a schiera.

Perciò tutti lo chiamavano l’Animale, ma guai a ricordarglielo. Si rischiava di diventare il cinquantunesimo dell’elenco kalašnikov!

Califano provò a resistere: “Beh, ma lo sapete, io mi sono ritirato dalle scene da un pezzo… non so se è il caso: una festa così importante, con ospiti di quel genere…”.

L’uomo con la camicia a fiori, ritrovò improvvisamente la parola: “Ma forse nun ‘e capit?!”, gli disse puntandogli addosso un dito minaccioso. “Se Don Salvatore dice che canti, tu canti meglio ‘e nu cardill!

‘E capit?!”, ringhiò.

Califano annuì abbassando lo sguardo.

“Non è finita – si intromise ancora quello con la giacca di pelle – . Questa deve essere l’ultima festa di Don Salvatore l’Animale, intesi?”.

Genny lo guardò perplesso: “E’ la sua ultima figlia femmina?”, chiese titubante.

I due si lanciarono uno sguardo d’intesa, poi scoppiarono a ridere rumorosamente. Poi il più grosso lo guardò serio: “Don Salvatore si è fatto vecchio – esordì con un sospiro di rassegnazione – non è più quello di una volta… e qui c’è una guerra da combattere. Imma fa ‘e muort’, e muort’ assaje. E Don Salvatore pare che nun o’ vuò capi’.

Dice che dobbiamo stare calmi, che c’è spazio per tutti. E intanto ci fottono. Tutti quanti ci fottono: i Petrelissi, i Giordano, e pure gli sbirri.

Se non ci diamo una mossa, tempo un anno, e qua per noi nun c’ rimane cchiù niente!”.

Califano allargò gli occhi: “Ma io che c’entro?”, ebbe la forza e l’ardire di chiedere.

“Perché tu sai pure cantare, ma nun tieni proprio fantasia!”, lo schernì l’uomo a fiori. “Quando Don Salvatore organizza una festa, le armi sono proibite.

Ci stanno almeno dieci persone alla porta, che ti controllano pure nelle mutande. E dove ce la mettiamo, noi, una pistola? Nel culo?”, rise sguaiato.

“Ho capito, ma nemmeno nel mio culo ci entra una pistola”, protestò timidamente.

Lo scagnozzo gli afferrò una spalla: “Nel culo forse no, ma nella fodera della chitarra sì… e poi chi è che viene a controllare nu’ pagliaccio come a te!”, rise di nuovo, ancora più forte.

Califano alzò entrambe le mani e le agitò come due maracas: “No-no, non fa per me. Io non le so fare queste cose, il sangue mi fa impressione…”

I due bestioni si guardarono negli occhi per un secondo, poi scattarono in sincrono: uno gli bloccò la testa con entrambe le mani, l’altro prese la forchetta, ingoiò un crocchè al volo, e glie la infilo dritto per dritto in mezzo al palmo. L’urlo di dolore squarciò la pizzeria. “E questa è la seconda che ci fai stasera!

Nun ‘e capit’ che tu non conti un cazzo!

Tu fai quello che ti diciamo noi, quando te lo diciamo noi. Altrimenti, prima ti taglio la lingua, accussì a fernisci ‘e fa ‘o cardill’… e poi mi faccio una passeggiata a casa tua, e la tua lingua, la ficco in mezzo alle gambe di tua moglie. Così vediamo pure se riesce a riconoscere il tocco!”

Califano pianse, pregò, giurò e spergiurò, ma i due furono irremovibili.

Sarebbe stato il loro cavallo di Troia, il loro asso nella manica per vincere la guerra di successione al vertice del clan. Gli piacesse o meno, era entrato a far parte dell’ingranaggio e ora doveva giocare la sua parte.

A fine serata – quando tutti sarebbero stati ubriachi e mezzo addormentati – dopo dodici ore di vino e grandi abbuffate, avrebbe preso la pistola dal fodero della chitarra, si sarebbe avvicinato a Don Salvatore, e gli avrebbe sparato cinque colpi dritto in faccia.

Poi, approfittando della confusione, se la sarebbe squagliata dalle cucine, e niente paura per le conseguenze: con il nuovo vertice al comando del Clan, la sua azione non solo sarebbe stata perdonata, ma – anzi – premiata con un contratto discografico nuovo di zecca con la Zeus Neapolitan Records, una casa discografica controllata dai Pagano, che la usavano per riciclare i soldi della droga. E poi ci sarebbe stato un tour nazionale, fino giù in Sicilia.

Avesse rifiutato, invece, sarebbero finiti in un pilastro di cemento armato lui, la moglie e pure suo figlio Peppino, anche se teneva solo dieci anni.

Non aveva scelta.

Non aveva mai avuto scelta.

Si mise a telefono.

Cazzo, come gli faceva male la mano. Ma non c’era tempo da perdere: richiamò a raccolta i suoi vecchi musicisti, Sam Butera alla chitarra, Tony Ruggente alle tastiere e il duo ritmico Peppe Frolla-Giovanni Di Dio, che ci potevi rimettere l’orologio con le loro battute, precise come un metronomo.

Ovviamente, a loro, non disse niente del piano.

Come non disse niente a Sam, quando – la mattina della festa – infilò un borsello scuro nella custodia della chitarra. “Tienimi questo – ammiccò – sennò finisce che mi perdo un’altra volta il portafogli e le chiavi della macchina”, e insieme entrarono nel ristorante proprio mentre l’arrivo degli sposi su una Cadillac bianco latte lunga dodici metri era salutato da uno stormo di duecento colombi bianchi che si librarono in volo, e iniziarono a volteggiare impazziti sulla maestosa Villa Ortensia, il ristorante scelto da Geppina come scenografia del suo giorno più bello.

Ovviamente, l’ingresso degli sposi nella imponente Sala Oro, tutta stucchi dorati e putti paffuti sul soffitto, fu introdotto da una marcia nuziale eseguita dal suo gruppo storico come da manuale. Quindi Genny si esibì in una toccante rielaborazione dell’Ave Maria di Schubert, e non mancò qualche occhio lucido sul finale.

Poi la cerimonia seguì il suo corso naturale: “Odiami”, sul buffet di benvenuto; “‘O latitante” – classico sempre richiestissimo – sugli Sfizi dello chef; “E’ colpa toja”, ad accompagnare le linguine all’astice, seguita da “Ti amo overamente” sul risottino mantecato alla pescatora; “Nui dduie pazz’ ‘nnamurat’” salutò l’arrivo in tavola dell’orata al forno, con patate alla leccese.

Quando – a fine serata – la squadra di venti camerieri in livrea blu con ricami d’oro, uscì in processione col dessert al cioccolato sui vassoi d’argento massiccio, Califano sentì avvicinarsi il suo momento.

Si asciugò il sudore dalla fronte con la manica del suo completo celeste, si allentò il nodo della cravatta. Con nochalance si avvicinò alla custodia della chitarra, approfittando di un momento che Sam era impegnato in un assolo al fulmicotone, sugli ultimi cinque capotasti, sfilò la pistola e se l’infilò svelto dietro, dentro la cintura, con la canna stretta tra le natiche.

Chi ha detto che non ci entra nel culo, pensò amaro.

Si avvicinò quindi al microfono, e lo strinse forte con entrambe le mani: “Signore e signori – ci soffiò dentro, con la voce che gli tremava – spero che la serata sia di vostro gradimento e che il mio gruppo vi stia divertendo…”

Cenni di assenso dalla platea e qualche applauso.

“Vi inviterei a fare un altro brindisi alla bellissima Geppina e al suo sposo Gerardo, con l’augurio di una vita lunga e felice assieme… e adesso, in onore del nostro preziosissimo ospite, Don Salvatore, il padre della sposa, vorrei dedicare a tutti voi, il mio cavallo di battaglia: “Nu’ padre carcerato”!”, annunciò sorridendo.

Uno scroscio di applausi accompagnò l’arpeggio di chitarra introduttivo. Genny Califano attaccò a cantare con la voce melodiosa di sempre: “Chiuso cca dint’ ‘na jurnata è nu mese.

Carcerat’ s’ more rint’ ‘o core…”.

Nel ristorante il silenzio era assoluto, potevi sentire il respiro dei trecento invitati, uno per uno. Nessuno si azzardò più a bere nemmeno un sorso d’acqua.

I riflettori erano tutti puntati su di lui, e Genny si sentì bene.

Per la prima volta dopo tanti anni, si sentì, ecco, sì: si sentì felice.

Per il ritornello, tutti scattarono in piedi a cantare in coro: “Per la legge sì ‘nu carcerato, però sì ‘o meglio pate che ‘nu figl’ può aveeeee!

Anche Don Salvatore l’Animale si alzò in piedi, diede un bacio sulla testa di sua figlia Geppina e con le braccia larghe e gli occhi lucidi, si avvicinò a Genny per abbracciarlo.

Io nun mi arrendo ‘o sai, a papà, e tornerò presto a v’abbracciàààà!”, si impennò Califano nell’acuto finale. Poi, mentre il pezzo sfumava in dissolvenza, si ricordò della ragione per cui era lì su quel palco: mise una mano dietro la schiena, e sentì il freddo del metallo pizzicargli le dita roventi.

Impugnò il calcio e fece per estrarre la pistola, quando sentì un rumore sordo rimbombare nella sua testa e le narici riempirsi di zolfo.

Poi altri due colpi, in stretta sequenza.

“Papà… papà mio… tu, tu l’è fatt’ accirere’!”, piagnucolò Franco Langella, una delle enormi guardie del corpo di Don Salvatore.

Il padre – Luigino Langella detto Tre di bastoni – era scomparso un paio di anni prima, in circostanze mai del tutto chiarite, e Franco non era mai riuscito a farsene una ragione. Si vociferava che avesse avuto una discussione al tavolo da poker con il Boss, ma nessuno si era mai fatto uscire una parola di più.

Franco Langella aveva la pistola fumante ancora stretta tra le mani, quando una raffica di mitraglietta lo passò da parte a parte.

Genny vide la sorpresa e poi il terrore, negli occhi del vecchio Boss, quando gli cadde tra le braccia, e un fiotto di sangue vermiglio gli sgorgò dalla bocca, e gli impiastricciò tutto il vestito celeste e la camicia bianca.

E mentre Geppina corse a raccogliere il corpo senza vita del padre, Genny Califano prese il microfono, chiuse gli occhi, e attaccò col più classico dei classici: “Lacrime napulitane”.

The show must go on”, pensò intonando la prima nota.