Cuore d’asfalto

Adoro il caffè!

Nero.

Forte.

Come lo faceva mio nonno, con quella macchinetta napoletana, che devi aspettare mezz’ora che l’acqua filtri. O come Sandrino, al bar di Corso Umberto. Beh, pure quello era buono: denso, odoroso… una cioccolata!

Quasi non c’era bisogno di zuccherarlo.

Ma quanto sarà passato?!

Bah, saranno almeno vent’anni.

Minimo!

Qualche altra volta, invece, preferisco farlo macchiare con uno spruzzo di latte freddo. Ma solo quando fa veramente schifo…

Per la verità, qua, sulla A14, fa sempre schifo.

Da Taranto fino a Pescara.

Su, fino a Pesaro.

E anche sulla Bologna-Padova.

E’ una specie di schiuma catramata, che sa un po’ di tubo di lavandino e un po’ di Orzo Bimbo molto annacquato.

Sulla A1 lo fanno buono, invece.

Fino a Firenze, almeno…

E pure sull’A16.

Ma qua – in tre anni e mezzo – mai che ne abbia assaggiato uno decente.

La commessa deve essersi accorta della mia espressione disgustata, perché ha fatto una smorfietta infastidita sotto la coppolina bianca e rossa, e ha stretto le spalle. “Cazzi tuoi… se non lo vuoi non lo bevi!”, avrà pensato.

Sta stronza!

“E allora bevitelo tu!”, le vorrei dire, ma che cambierebbe?! Sono sicuro che un caffè come quello di Sandrino, sta sciacquetta, non l’ha mai bevuto in vita sua… e siccome tutto è relativo, se non hai un termine di paragone, sta a vedere che mi dice pure che questa ciofeca è il migliore che abbia mai assaggiato?!

Meglio che me ne vado, va!

Finisco di ingoiare il caffè (o qualsiasi cosa mi abbiano rifilato nella tazza), recupero il giornale che ho poggiato sul bancone, piegato a metà tra la ciotola con lo zucchero di canna e quello semolato, e mi avvio con passo pesante all’uscita.

Mi faccio tentare da una burrata di Andria, ma, alla fine, riesco a superare indenne un paio di corridoi.

Oltrepasso le casse, attraverso la barriera antitaccheggio e mi fermo sotto la pensilina a fissare le auto che arrivano e che ripartono veloci. Una Alfa 157 si ferma proprio di fronte alle mie scarpe, su una piazzola per disabili. Nella macchina, però, c’è un tipo brizzolato, ma non deve avere più di trent’anni. La camicia aperta su un ciuffo di peli neri e una cartella di pelle marrone appoggiata sul cruscotto, poco sopra il volante.

Uno stronzo.

Una mamma, invece, sta rincorrendo la figlia… che peste!

Guardala, tra poco finisce sotto un Fiorino!

No, meno male, l’ha acciuffata… appena in tempo.

Ma che fa adesso?

La picchia?

E a che serve? Povera stella!

Ma è una cucciolina!

Se io e Mara avessimo avuto una bambina, beh, giuro che non l’avrei picchiata mai… solo baci. Tanti baci…

Ma non sono venuti…

Vabbè.

Faccio un lungo sospiro, quasi un soffio, e mi metto a passeggiare sotto la pensilina di sandwich coibentati, fino alla fine della vetrata: il sole caldo del mese di aprile mi riscalda le ossa. La schiena mi fa sempre un male cane durante l’inverno e questo tepore su per le vertebre era proprio quello che ci voleva.

Le macchine continuano a sfrecciarmi davanti. Le seguo con lo sguardo fino alla pompa di benzina, poi le vedo uscire di fretta: imboccare di nuovo l’autostrada che si intravede – interminabile – oltre lo svincolo.

Io mi siedo su una panchina al sole, sul retro del casermone di vetro e metallo dell’autogrill, poco lontano dal grosso spiazzo asfaltato dove parcheggiano pigri i pullman e i TIR, e mi piazzo a leggere il giornale.

Non ho fretta io.

Non devo andare da nessuna parte…

Io vivo qui.

O meglio, non proprio qui, sull’area di servizio “Le Fonti Est” dell’A14, tra Gioia del Colle e Bari Sud.

Diciamo che io vivo in autostrada, ecco.

Ci sono entrato il 12 ottobre del 2008, come è bravo a ricordarmi tutti i santi giorni un biglietto sbiadito ficcato sotto il parasole.

Ottobre 2008…

Cazzo: sono già passati tre anni!

In tre anni, oramai, ho girato in lungo e in largo tutte le autostrade d’Italia, Salerno-Reggio Calabria compresa. Ho attraversato viadotti e gallerie; ho superato interminabili cantieri per la terza corsia sotto il sole a picco d’agosto e code lunghe come gigantesche anaconde. Ho visto tamponamenti a catena e incidenti mortali, pezzi di cervello spalmati sull’asfalto. Una volta ho visto anche una testa bionda rotolare oltre il guard-rail e precipitare nel fosso di scolo.

Ho festeggiato il Natale e il Capodanno.

Quello del 2010 – mi ricordo – l’ho trascorso nell’autogrill di Firenze Nord assieme ad un camionista di Ivrea.

Lui passò tutta la notte a lamentarsi del suo capo e a telefonare alla moglie e ai figli, che erano rimasti a casa della suocera per il cenone. A mezzanotte festeggiammo stappando una monoporzione di prosecco, tra i tavolini in acciaio e formica rovere chiaro di Ciao-Spizzico. All’una meno un quarto, me ne andai a dormire in Motel. Lui, invece, si fece una puttana nella cabina del camion per festeggiare il nuovo anno.

Beh, alla fine, se ci pensi, vivere in autostrada può anche essere piacevole: è come partire per lunga una vacanza, con l’entusiasmo della partenza e senza la depressione del rientro.

Galleggiare in un’eterna attesa di cose belle e di giorni felici da trascorrere stesi su un lettino al sole, o in montagna, all’ombra di una quercia odorosa di ghiande e di sottobosco.

L’attesa…

Anche quella di tornare a casa, un giorno.

Forse.

Tiro un sospiro che è più uno sbuffo, mi aggiusto sulla panchina e mi concentro, finalmente, sulla lettura del giornale: La Gazzetta del Mezzogiorno.

Lo so, non è granché come lettura, ma mi piace tanto leggiucchiare le notizie in cronaca locale… immergermi nel posto che vive e che pulsa, oltre il casello, al di là dei nastri metallici dei guard-rail. Dare una consistenza e un volto agli accenti e ai dialetti che senti nell’officina del gommista, o alle casse del bar.

Beh, sinceramente non è che ci sia granché di interessante da leggere oggi: la polizia ha arrestato un rumeno di 43 anni che aveva svaligiato tre appartamenti di Ostuni a Pasqua. Un barese di 19 anni è sospettato di aver ucciso la prostituta trovata morta domenica sera in un parco. Ah, e poi ci sono due feriti gravi in un incidente d’auto sulla Bologna-Taranto all’altezza di Trani.

Bah, insomma… credevo peggio.

Vabbè, lo so che non è la strage del Cermis o l’Uragano Katrina, ma questo è quello che passa il convento.

E poi è pur sempre la Puglia, mica l’Afghanistan!

Continuo a leggere svagato.

Mezz’ora e una decina di fogli dopo, una voce timida e acuta interrompe il flusso dei miei pensieri: “Signore? … ehm… signore?”

Sollevo lo sguardo dal giornale, incrociando quello di una ragazza di una ventina d’anni – forse venticinque – con dei lunghi capelli biondi e un sorriso, che magari non è proprio bello, ma simpatico, questo sì.

“Sì?”, dico atono, senza mollare il giornale che tengo aperto tra le dita.

Si umetta le labbra e continua, guardandomi dritto negli occhi: “Mi scusi se la disturbo… volevo chiederle dove sta andando…”, e senza che io abbia modo di risponderle, incalza: “Mica va a Bologna?”

E’ bionda. Ha uno sguardo dolcissimo tanto che rimango a guardarla per un po’. Emana una strana energia.

Do un’occhiata al grosso zaino da campeggiatore che tiene in spalla, e al sacco a pelo che spunta da sotto la fibbia di nylon.

Mmmm… un’altra autostoppista, penso.

Bah, Bologna…

L’ultima volta ci sono stato sei mesi fa a Bologna.

Ma mai in questa stagione, sinceramente.

Dicono che sia bellissima in primavera: una volta ho sentito uno che diceva che dall’area di servizio La Pioppa Ovest, prima della tangenziale – se non c’è foschia – si riesce anche a vedere la Torre degli Asinelli.

E poi, da lì, posso sempre allungarmi a Firenze per una bistecca come Dio comanda.

Sulla A1 la fanno eccezionale!

Mi schiarisco la voce e cerco di darmi un contegno, ricordandomi contemporaneamente di essere in maniche di una camicia celeste tutta stazzonata e di non essermi fatto la barba da più di tre giorni. “Sì… come hai fatto ad indovinare?”, le dico accennando un sorriso.

“Che Bologna sia!”, penso tra me e me…

Tanto che ci sto a fare ancora qua?!

Mi sono già rotto le palle della Puglia!

“Davvero? Gesù ti ringrazio…”, sorride lei, lasciandosi cadere dietro la schiena lo zaino, che atterra con un tonfo sordo.

Mi allunga una mano: “Piacere, io sono Aurora“, mi dice presentandosi.

Chiudo il giornale e l’appoggio spiegazzato sulla panchina, poi mi alzo in piedi e glie la stringo. Vengo nuovamente invaso da quell’energia che avevo provato all’inizio. Rimango incantato dai suoi innocenti occhi blu.

Non lascio la presa.

Lei mi guarda e mi accorgo che ci sto facendo la figura del maniaco: “Ehm… piacere, io sono Egidio”, riesco a farfugliare.

Aurora sfila la mano, finalmente, e si abbandona sulla panchina con un sospiro: “Avrà capito che mi serve un passaggio. Sto qui da stamattina e non ho trovato nessuno che mi accompagnasse nemmeno a Barletta!”

“Sei stata fortunata, allora – le dico – stavo sgranchendomi un po’ le gambe, ma riparto tra dieci minuti”.

Sposto il giornale su un lato della panchina, e mi accomodo affianco a lei. “Non è facile trovare passaggi da queste parti… la gente è un po’ restia…”, faccio io.

“Non lo dica a me! Non vedo l’ora di fuggire per sempre da Taranto!”, risponde allargando un sorriso malinconico.

Accompagno il suo sorriso, poi mi soffermo a guardare distratto un autotreno che riparte sbuffando come un grosso mammouth, quindi lancio un’occhiata allo zaino: “Allora, andiamo?”, le dico alzandomi in piedi.

Lei fa lo stesso.

Mi avvicino al suo borsone e mi chino per raccoglierlo. “No, la prego…”, mi dice, cercando di afferrare la maniglia.

“Figurati….”, rispondo io. “Sarai stanca, te lo porto io fino alla macchina”, aggiungo sorridendo.

Il mio sorriso si spegne appena provo a sollevare lo zaino da terra.

Sento un secco crack provenire dalle cinque vertebre lombari.

Cazzo, la schiena!

Madonna mia, che male!

Simulo un colpo di tosse, per coprire una smorfia di dolore, e con uno sforzo disumano riesco a tirare la bretella dello zaino su una spalla. “Ma che c’ha messo, i mattoni?!”, penso indispettito.

Mi avvio bestemmiando telepaticamente verso il parcheggio delle auto, superando un’aiuola rinsecchita da cui spuntano più cartacce che erba. Aurora mi si affianca fischiettando un motivetto di Mina: i suoi capelli lunghi e biondi luccicano al sole.

Dopo una ventina di sudatissimi metri, con la mano libera riesco a sfilare le chiavi dalla tasca dei pantaloni e premo il pulsante dell’antifurto. Le quattro frecce della mia Renault Megane grigio metallizzato si illuminano contemporaneamente, accompagnate da un doppio bip che fa scattare le serrature: “Eccoci qua…”, sbuffo mollando finalmente lo zaino ai piedi del cofano. Apro il portellone, sposto su un lato le mie due sacche e il beauty-case – praticamente quello che chiunque altro chiamerebbe “casa mia” – e faccio un ultimo sforzo caricando quel cadavere nel bagagliaio: “Hai altro?”, le chiedo.

Mi fa di no con la testa.

“Bene, andiamo allora…”, le dico, invitandola a montare in macchina.

Faccio il giro attorno alla Megane, apro con forza lo sportello e mi scaravento al volante. Il motore si rianima borbottando, mentre Aurora chiude la portiera e si allaccia la cintura di sicurezza. La imito, poi controsterzo e premo l’acceleratore, uscendo dal parcheggio e inserendomi velocemente nella corsia di innesto.

Il sole fiammeggia in un cielo blu e privo di nuvole e il vento fischia forte infilandosi nel finestrino mezzo aperto. Lo tiro su e poi allento il bocchettone dell’aria fresca per non morire soffocati.

Aumento la velocità e innesto la quinta, scervellandomi per trovare qualche cosa di intelligente e interessante da dire.

Devo dire qualcosa.

Qualcosa che non abbia niente a che vedere con il tempo e col traffico. E nemmeno con la retrocessione in serie B del Bari. Qualcosa che, possibilmente, potrebbe cercare di migliorare l’immagine di quarantenne frustrato che sono riuscito a costruirmi nei quindici minuti trascorsi con lei.

“Non hai paura a fare l’autostop?”, le chiedo.

Che fantasia!

“Potrei essere un serial killer”, aggiungo e poi mi mordo le labbra per quello che mi è appena uscito di bocca.

Egì! Ma sei scemo?!, penso indispettito. Che la vuoi terrorizzare?!

Lei mi studia per qualche istante, poi esclama rassicurata: “Naaaa… non ce l’ha la faccia del serial killer. Li saprei riconoscere io!”

Sorrido: “Infatti… il sangue mi fa impressione!”

Mi guarda con grandi occhi vuoti, dove si riesce ad intravedere un velo di tristezza, poi aggiunge: “Sinceramente questo viaggio dovevamo farlo in due, io e il mio ragazzo. Dovevamo festeggiare la mia laurea… ma tre giorni fa ci siamo lasciati”.

Faccio un’espressione triste, che si intoni alla circostanza, e lei continua determinata: “Ma io a questo viaggio non ci rinuncio! E’ il mio viaggio: me lo sono meritato!”

“Fai bene! Vedrai che, magari, tra qualche giorno ci ripensa e ti raggiunge…”

“Naaa… non penso: è uno stronzo!”

Beh, se lo dici tu…

“Comunque ti divertirai a Bologna! E’ una città giovane, piena di vita… e magari ti trovi anche un altro fidanzato!”

Lei mi guarda un po’ indecisa su cosa dire, poi afferma candidamente: “Ma io non sto andando mica a Bologna!”

“Ma come?”, rispondo perplesso.

“Io vado a Nizza! Vado a fare due settimane in Costa Azzurra!”

“E che c’entra Bologna allora?”

“Beh, è la prima città che mi è venuta in mente per allontanarmi da qua… la fine di questo ramo dell’autostrada, insomma…”

La guardo sbigottito: “Ma per arrivare a Nizza, da qui, la strada che passa per Salerno e poi Roma è molto più breve”, affermo con competenza.

L’avrò fatta almeno tre volte: fino a Sanremo e di lì su verso Torino e Aosta, per poi ridiscendere a Milano e quindi dritto a Venezia.

“Questo sì – risponde – ma sarebbe stato più difficile trovare un passaggio per Napoli oppure Roma. Invece, arrivata a Bologna, si può dire che sia già a metà strada… e da lì è più facile arrivare magari a Genova, e poi in Costa Azzurra. Insomma, se sono fortunata in due o tre giorni ci arrivo a Nizza!”

La ragazza è un tipo sveglio, penso.

“Non fa una grinza”, sorrido.

“Grazie… ho valutato tutto il percorso per settimane. Quando studiavo per la tesi, e non ce la facevo proprio più a stare sui libri, allora mi concedevo una pausa, prendevo la cartina e iniziavo a immaginare strade e percorsi. Valutavo chilometri e tempi… e poi pensavo a Nizza: al Lungomare degli Inglesi e al mare blu cobalto.

Dicono che in primavera il lungomare sia incantevole”, aggiunge.

“Lo so”, mugugno.

“Ci è già stato?”

“Una volta… tanti anni fa… quando ero ancora fidanzato con mia moglie”. La guardo, poi mi affretto a precisare: “La mia EX moglie”, calcando per bene le ultime sillabe.

“Non è più sposato?”

“No…”, sospiro. “Mi ha lasciato”. Ingoio una sorsata di saliva: ”…A ottobre scorso hanno fatto tre anni”.

“Mi spiace tanto per lei… deve avere sofferto molto…”

Mi lancio un’occhiata compassionevole dallo specchietto retrovisore: “Bah, era una stronza!”, sorrido. E aggiungo: “E comunque, chiamami pure Egidio e dammi del tu: non sono così vecchio come sembro, sai?”

Si volta a guardarmi: “Ma lei… ehm… tu non sembri per niente vecchio, anzi”, e sorride.

A me un brivido corre lungo la schiena e arrossisco. Inizio a trafficare nello scomparto laterale con degli scatti rigidi per coprire l’imbarazzo. Pesco un Cd e lo infilo nello stereo: “Un po’ di musica?”, le chiedo.

“Ma sì, dai!”, risponde.

Whole lotta love invade tutto l’abitacolo, con la nobile chitarra di Jimmi Page che saltella a destra e sinistra.

Tamburello con il pollice sul volante.

Anche Aurora scuote a tempo la testa: “Belli, chi sono?”, mi chiede alla seconda strofa.

Sorrido: “Sono i Led Zeppelin! Mai sentiti?”

“Na, ma sono carini…”

“Carini? Questa è la voce di Dio”, rido.

“Io ascolto sempre Capa Rezza, ma questi mi piacciono”.

“Meno male!”, scoppio in una risata. “Questa sì che da la carica!”, esclamo alzando il volume.

Rimaniamo in silenzio ad ascoltare.

Dopo Whole è la volta di Black Dog, nella compilation che ho comprato qualche mese fa in un’area di servizio a Cosenza.

“Allora dottoressa! In cosa ti sei laureata?!”, chiedo dopo un po’, smorzando di un tantino il volume dello stereo.

“In legge!”, mi risponde tutta soddisfatta. “Ho fatto la tesi in Diritto Costituzionale…”

“Bene, allora ti devo chiamare avvocato?”, sorrido.

“Veramente la mia idea sarebbe quella di diventare magistrato… ma è un concorso così difficile. Non so se ne sono all’altezza…”.

“Ce la farai”, faccio io convinto.

“Ma che ne sai – sorride – non mi conosci nemmeno!”

“Ma conosco le persone… passo le giornate ad osservarle, studiarne gli atteggiamenti… e tu mi sembri convinta e determinata, ecco”.

“Ma chi sei? Un poliziotto? Un investigatore privato?!”, ride.

“Ma che dici!”, sorrido. “Sono ingegnere… o meglio lo ero”, sospiro.

“E che ci facevi giù a Taranto? Non sei di queste parti…”

“Diciamo che adesso sono una specie di commesso viaggiatore”.

Aurora mi guarda di sottecchi per qualche secondo: “Mmmm”, mormora. “Sei un tipo misterioso”, sbotta.

“Sono uno qualunque…”.

“Sarà…”, commenta lei.

Questo produce in me un lieve sorriso, ma il mio cuore se ne va da tutt’altra parte: a una sera d’autunno e una casa vuota. Un biglietto spiegazzato – lasciato in bella vista sui fornelli – e una corsa in macchina, lontano…

Lontano.

Rimaniamo in silenzio per un bel pezzo.

“Di dove sei? L’accento non è marcato, ma l’inflessione sono sicura che è napoletana…”

Tiro un lungo sospiro, mi mordo il labbro inferiore e infine le rispondo: “Sì, sono di Napoli, anche se non ci vivo più da qualche anno…”

“Bella Napoli! Il Vesuvio, il mare e la sfogliatella!”

Beh, la fiera del luoghi comuni: non manca proprio nulla!

Sinceramente mi sarei aspettato di più da lei.

“C’è anche qualcos’altro…”, puntualizzo sarcastico.

“Maradona?”, sbotta a ridere.

“Ma vaff!”, rido anche io.

“Lo so, lo so – mi tranquillizza – conosco Napoli. Oddio, non benissimo, ma una volta mi piacerebbe rimanerci a visitarla per qualche giorno…”

“Allora devi assolutamente andarci: magari tornando giù da Nizza”, sorrido.

“E’ un’idea…”

“Sì, e mi raccomando, devi assolutamente mangiare l’unica, originale, inimitabile pizza napoletana. Non ne troverai una simile in nessun’altra parte del mondo! Non so se è per i pizzaioli, per la farina, o magari l’acqua… che ne so, ma una pizza buona come quella di Napoli non l’ho mai mangiata da nessun’altra parte!”

E sì che ne ho girati di posti in questi ultimi tre anni, mi verrebbe da dire.

“Immagino”, fa lei.

“No, non puoi immaginarla… devi mangiarla. E’ alta, morbida, ma allo stesso tempo leggera. E il pomodoro è così dolce e poi – soltanto a Napoli – si mette una leggera spolverata di parmigiano sulla mozzarella prima di mandare la pizza in forno. Una chicca per veri intenditori”, schiocco la lingua rumorosamente.

Parlare di pizza mi ha fatto venire fame.

Do un’occhiata all’orologio sul cruscotto: sono quasi le due e mezzo, abbiamo già fatto più di centocinquanta chilometri.

Ho l’acquolina in bocca, e in macchina non c’è nemmeno un pacchetto di caramelle. Per fortuna un cartello mi segnala che tra 15 km c’è l’area di servizio Dolmen di Bisceglie Ovest che – se non ricordo male – ha anche un buon ristorante, che ogni tanto ci infila un po’ di cucina regionale nel menù del giorno.

“Hai già mangiato?”, chiedo ad Aurora.

“No… solo un caffè stamattina…”, mi risponde mordicchiandosi un dito.

“Avrai fame allora! Beh, io sono affamato!”

“Effettivamente ho lo stomaco che fa gru-gru…”

Sorrido alla sua definizione un po’ infantile: gru-gru…

“E allora dobbiamo fargli cambiare musica”, dico mettendo la freccia a destra. “Ci fermiamo a mangiare qui all’autogrill, tanto abbiamo tutto il tempo…”

Io di sicuro.

Ho tutto il tempo del mondo io.

“Va bene, come vuoi…”

Tiro su il piede dal pedale dell’acceleratore e rallento, quindi imbocco la rampa che curva a destra e poi porta dritti all’area di servizio. Mi avvicino al solito casermone di cemento e lamiera, parcheggiando la Megane sotto una tettoia di pannelli fotovoltaici.

Andiamo!”, le dico aprendo lo sportello con uno sbuffo e mi alzo in piedi. Aspetto che scenda, poi la osservo legarsi i lunghi capelli con una molla rossa che teneva stretta al polso: “Devi prendere qualcosa nello zaino? Tanto lo lasciamo qui nel cofano, è inutile tirarcelo dietro”.

Anche perché – penso – io da là non lo sposto di sicuro!

“No, sto bene così…”, risponde.

Meglio…

Ci avviamo all’autogrill senza fretta, stando solo attenti a non farci mettere sotto dalle auto che sfrecciano veloci verso le pompe di benzina.

Spingo la porta a vetri, quindi mi caccio nella girandola d’acciaio che separa la zona ristorante dal bazar. Sono già dall’altra parte quando mi sento tirare per un braccio: “Un momento… devo andare un attimo in bagno…”, mi dice Aurora imbarazzata.

Le sorrido: “Va bene, fai con comodo, io inizio a prendere un tavolo”.

Mi guardo attorno.

I tavolini sono quasi vuoti: c’è solo una coppia di anziani con un ragazzo che stanno spiluccando una macedonia di frutta fresca, e due giovanotti in t-shirt che si sono appena seduti con una bistecca sul vassoio.

Poggio la giacca sullo schienale di una sedia, e mi avvio con l’esperienza di un veterano alle bacheche di vetro del self-service. Un cartello scritto a mano col pennarello blu ci tiene a precisare che il menù è spesso aggiornato in relazione alla disponibilità degli ingredienti freschi, alla stagione e all’inventiva dei cuochi…

Seee, vorrei proprio vedere: ma se sembra la fiera del precotto!

Comunque…

Vediamo almeno cosa c’è oggi di commestibile.

Do un’occhiata al menù scribacchiato alla meglio su una lavagna magnetica.

Insomma, non è malaccio.

Poi – dopo tre anni – uno ci fa pure la bocca e soprattutto lo stomaco…

Allora, c’è prosciutto e mozzarella di bufala per antipasto; come primo bucatini all’amatriciana e orecchiette alle cime di rapa e per secondo, invece, lombata di vitello oppure cotoletta con rucola e pachino. Ah, e poi c’è tutta una colorata sequenza di insalate verdi, insalata mista, verdure cotte di stagione e patate al forno.

Beh, poteva andare peggio!

Penso che le orecchiette – qui a Bisceglie – dovrebbero essere buone… ma c’è pure la lombata. Quella non me la vorrei perdere…

Sono ancora indeciso su cosa ordinare, quando vedo Aurora uscire da un corridoio che trabocca di biscotti farciti e avvicinarsi ai tavoli, guardandosi in giro con un pizzico apprensione.

“Sono qui”, dico ad alta voce, richiamando la sua attenzione con una mano.

Mi raggiunge: “Allora? Che si mangia?”

“Ho visto le orecchiette…”, faccio io.

“Orecchiette… a Bari… e poi sarei io quella dei luoghi comuni?!”

La sua battuta mi piega in giù gli angoli della bocca.

“E dai!”, sorride. “Sto scherzando!”

Mi rianimo un po’: “Vabbè, io comunque prendo le orecchiette…”

“No, io no”, mi fa avvicinandosi alla vetrinetta con gli antipasti. “Ne ho una pancia così”, aggiunge. “Prendo il prosciutto e mozzarella e delle patate a forno…”, si decide, appoggiando un dito sul vetro della bacheca.

Una cosa minimal, penso.

Recupero due vassoi da un ripiano dove ci sono anche il pane e le posate e ci mettiamo in fila dietro una signora che sta cercando disperatamente di convincere il figlio tredicenne a scegliere la carne e l’insalata.

Alla fine io prendo le orecchiette – come avevo stabilito – e una porzione di patate per farle compagnia. Lei rispetta in pieno il suo programma.

Ci avviamo ai tavoli e ci sediamo l’uno di fronte all’altro, vicino a una vetrata che dà sul parcheggio.

Il sole le illumina i capelli che – senza voler risultare patetico – sembrano veramente tanti filamenti d’oro.

“Buono il prosciutto: è dolce… e le tue orecchiette come sono?”, mi chiede dopo un po’, strappandomi la forchetta di mano.

Arpiona un paio di orecchiette dal mio piatto e se le porta alla bocca. Mastica lentamente con gli occhi chiusi, poi esclama: “Buone… ma io le faccio meglio!”

Sorrido.

“Sul serio… devi assolutamente assaggiarle. Io so fare anche la pasta in casa, me l’ha insegnato mia nonna: sono tutta un’altra cosa!”

“Ci credo…”

“Quando torno a casa, ti chiamo e vieni a mangiarle… tanto ci torni a Taranto, no?”

“Penso di sì”, sorrido mestamente.

Mi restituisce la forchetta. La osservo un attimo, poi infilzo un po’ di pasta e la porto alla bocca, immaginando di riconoscere il sapore di Aurora in mezzo alle cime di rapa.

“Perché tua moglie ti ha lasciato?”, mi chiede candidamente dopo un po’.

Mfgh… il boccone mi rimane incollato al palato molle e per poco non mi strozzo. Sono costretto a scolarmi mezza bottiglietta d’acqua minerale per non lasciarci le penne.

Lei si accorge della mia reazione scomposta: “Scusami… non volevo essere impicciona… “, dice.

Inspiro profondamente.

Espiro.

“Figurati…”

“Non dirmelo se non vuoi…”

“E’ passato tanto tempo…”, sospiro. “Beh, non è che ci abbia capito molto…”

“Succede sempre così…”, dice lei. “Anche col mio è stata la stessa cosa…”, sospira.

Abbasso gli occhi sulle orecchiette: “Nell’ultimo periodo – racconto – diceva di sentirsi sempre sotto esame… mi accusava di essere nevrotico, insicuro: un peso morto che si era caricato da buona samaritana!”

“Ma dai!”

“Sì… e un giorno sono tornato a casa e non c’era più. Ha portato via i vestiti poco a poco senza che mi accorgessi niente ed un bel giorno lei è andata via di casa, lasciandomi un biglietto dove mi chiedeva di non cercarla e non chiamarla. Mi ha lasciato un biglietto. Capisci? Quindici anni assieme e un biglietto: vado via”.

“Che stronza!”, esclama. Poi si porta una mano alla bocca: “Scusa, m’è scappata!”

Sorrido: “Non fa niente… hai ragione tu: è proprio una stronza…”

“E tu che hai fatto?”

“Niente… sono andato via anche io…”

E non sono più tornato, penso tra me.

Quella casa – messa assieme pezzo dopo pezzo – odorava troppo di ricordi… non ce la facevo a restarci da solo. Nemmeno un minuto di più.

Aurora sorride ed è come se sorgesse il sole.

“Mi dispiace molto”, sospira. “E, per inciso, io non penso per nulla che tu sia così!”

Sono troppo imbarazzato per rispondere.

Mi limito pure io a sorridere.

Recupero, allora, un mazzo di carte napoletane che tengo sempre nella giacca – come passatempo nelle lunghe serate trascorse da solo in autogrill o sulle aree parcheggio – e gli do una mescolata veloce, senza staccare gli occhi da lei.

Lo poggio, quindi, sul tavolino di rovere.

Quello che ho intenzione di usare è un giochino semplice, ma molto efficace. Le strapperò una risata e con questa innocua stronzata riuscirò a riacquistare i punti persi per quest’ultima rivelazione strappalacrime.

Magari anche per la differenza d’età.

Ma quello, più che punti persi, è partire in svantaggio.

“Scegli una carta”, le dico, poi mi pento subito.

Sinceramente adesso non mi pare più una gran mossa… magari mi piglia pure per uno psicopatico, penso.

Aurora mi guarda perplessa.

Raccatto il mazzo di carte dal tavolino e glielo porgo di nuovo.

“Scegline una”, ripeto, aggiustandomi sulla sedia.

Osservo Aurora guardare le carte con una strana espressione sul volto. Le sue dita ne accarezzano il dorso, prima di arcuare gli angoli della bocca e avvicinarsi al bordo del tavolo. “E va bene… ma ti avviso che sono molto difficile da impressionare”.

Prende il mazzo tra le mani, e inizia a scartare attenta.

“Scelta” mormora dopo qualche secondo, tenendo la carta gelosamente nascosta tra le mani.

“Adesso devi rimetterla dentro”, le dico.

Mi do una riavviata ai capelli e sistemo il mazzo in modo che sia pronto a rivelarmi la carta che ha scelto. Lo apro e lascio che sia lei a scegliere dove nasconderla.

E’ una carta segnata.

Basta far scorrere il mazzo e rintracciare il suo segno.

Semplice, ma efficace!

Inizio a sfilare le carte dal mazzo una ad una.

Mi fingo indeciso su un paio e poi proseguo spavaldo. Arrivo a tre quarti del mazzo e riconosco il segno.

“E questa?” domando porgendole il cinque di spade.

“Ma sì, ma come hai fatto?!”

“Ehhhhhh, un mago non rivela mai i suoi trucchi!”, rido.

Ride pure lei.

Restiamo qualche secondo a guardarci fissi negli occhi e sento lo stomaco contrarsi in una maniera poco naturale. Distolgo lo sguardo, recupero le chiavi dell’auto dal bordo del tavolino e faccio: “Allora? Ce ne andiamo? C’è ancora tanta strada da fare fino a Bologna”.

“Sì, dai…”

Ci alziamo all’unisono e usciamo dal ristorante. Facciamo una decina di metri fino al parcheggio e ci mettiamo in macchina. Levo i Led Zeppelin dallo stereo e metto qualcosa di soffice, da dopo-pranzo, insomma.

Devo avere un vecchio Cd dei Banco del Mutuo Soccorso, penso.

C’è una canzone che adoro del Banco: 750.000 anni fa: l’amore.

Che gran bel pezzo!

Ricordo ancora quando – parecchi anni fa – andammo io e Mara a Roma per vederli dal vivo: che serata!

A volte le canzoni solleticano una porzione particolare della tua memoria, e ti pare davvero di rivivere le stesse emozioni e sensazioni della prima volta che le hai sentite. Anche l’identico sfarfallio nello stomaco…

Sospiro.

Mi concentro, allora, sulla guida.

La strada è dritta, comoda… Aurora, cullata dalla dolcezza della musica, si addormenta come una marmotta.

E’ bella.

E vicino a lei la mia fantasia vola.

Pure troppo.

“No, ho detto NO!”, penso risoluto.

In questo assurdo periodo della mia vita, una storia come questa non lo so proprio se ce la faccio a reggerla.

E poi guardala, Egì, avrà la metà dei tuoi anni…

Sì, ma che bellina che è…

Fermo per un secondo la giostra vorticosa dei miei pensieri: “Un momento: ma non è che mi sto facendo un film in testa?”, penso incerto. “Mi ha chiesto solo un passaggio: dai Egì, non fare il maniaco!”

Aurora sembra aver percepito le mie perplessità, perché increspa la fronte, apre la bocca, respira lungamente. Poi, però, sorride, sbuffa forte e si gira dall’altro lato, continuando a dormire con la faccia schiacciata sul finestrino.

Io mi costringo a concentrarmi sulla strada, fino a che – quasi – inizia a farsi buio.

Quando Aurora si sveglia continuiamo ancora a parlottare del più e del meno, fin quando non si distingue più nulla attorno a noi, se non i cartelli verdi a bordo strada e i fanali delle macchine che ci superano.

Attraversiamo tutta la Puglia, quindi le Marche.

Siamo già in vista di Pesaro, quando ci fermiamo di nuovo per una sosta “idraulica”, come la chiamo sempre io.

Entriamo e usciamo subito dall’autogrill.

Senza fronzoli.

Ho fretta di arrivare a Bologna.

Ho fretta di salutare Aurora…

Di rimanere finalmente solo.

Di nuovo.

Rientro in macchina, per difendermi da una leggera brezza che pizzica le orecchie, e aspetto che anche Aurora si infili la cintura per rimettere in moto e partire. Mi accorgo, però, che rimane ferma a fissarmi.

“Che c’è?”, le chiedo. “Ho fatto qualcosa che non va?”. Mi sento le mani che sudano: adesso, restare io e lei da soli nella stessa macchina, mi mette una certa ansia.

Aurora mi si avvicina e mi bacia.

Cazzo, questa proprio non me l’aspettavo!

Ci rimango di sasso.

Anche lei mi guarda. Poi si schiaccia sul sedile e mi incoraggia con un sorriso. Mi avvicino lentamente, quasi non voglia spezzare l’incantesimo che si è creato.

Lei è qua.

Bella, diversa da tutto quello che ho conosciuto fin’ora: una foresta da scoprire.

I suoi occhi sono azzurri e lucenti, a differenza del mio sguardo che è quello spento e calmo di chi non s’aspetta più nulla dalla vita.

Facciamo l’amore in macchina e tutto è così naturale, bello, nuovo, interessante, un sogno, e lei è così dolce. Da troppo tempo ero a digiuno d’amore e di sesso. E Aurora ha le labbra tenere che scottano e mani curiose e instancabili.

Rimaniamo stretti l’uno all’altra sul sedile posteriore, nella penombra densa dell’auto. I vestiti sono tutti ammucchiati per terra, sui tappetini, e – attraverso i finestrini appannati – i fanali giallognoli delle auto che passano le illuminano ad intermittenza il viso rotondo.

“Vieni con me…”, mi sospira in un orecchio.

“Dove?”, chiedo.

“A Nizza… vieni con me. Sarà fantastico: il mare, il sole e i baci… tanti baci”.

Rimango muto per un po’.

Nizza?

Fin’ora non avevo mai preso seriamente in considerazione la possibilità di uscire dal rifugio d’asfalto nel quale mi sono andato a nascondere.

La prospettiva di tornare a vivere un po’ mi spaventa e un po’ mi esalta.

Forse è veramente arrivato il tempo, per me, di smetterla coi rimpianti e coi rimorsi. Qualsiasi cosa sia successa, non è colpa mia!

Sorrido.

“Con te verrei dappertutto…”, sospiro.

Anche Aurora sorride e mi bacia di nuovo.

Restiamo abbracciati per un sacco di tempo, non saprei dire quanto. Ci addormentiamo l’uno contro l’altro, poi – quando già si intravedono le prime luci dell’alba – scendiamo dalla macchina infreddoliti per un provvidenziale caffè.

Si riparte!

Ma non Bologna: Nizza!

Si va a Nizza, stavolta.

E tanti saluti a tutti.

Abbasso il parasole: stretto nella fascetta grigia c’è ancora il mio biglietto d’ingresso in Autostrada, che porta impressa a fuoco la data del 12 ottobre 2008. E’ un poco scolorito e mangiucchiato dal tempo e dal sole, ma la scritta è ancora visibile come una vecchia ferita.

Lo guardo in maniera penosa, poi lo accartoccio e lo butto dal finestrino.

Tanto è completamente inservibile: quando uscirò, mi toccherà comunque pagare l’autostrada dall’inizio del tronco.

“Cos’era?”, mi chiede lei.

“Niente – sospiro – solo un brutto ricordo”

Supero Bologna e taglio per Genova.

Aurora continua a massaggiarmi, col pollice, il dorso della mano che tengo fissa sulla leva del cambio. Ogni tanto la sollevo e le faccio una tenera carezza. Lei sorride e si sporge per allungarmi un bacio sulla guancia.

È bella e felice, come si può essere solo a vent’anni.

Vent’anni…

Io , intanto, guido.

Mi sento un fuoco dentro, un’energia che non pensavo più sarei riuscito a provare ancora.

Poco prima di arrivare a Savona, Aurora mi pizzica dolcemente un braccio: “Ci possiamo fermare un momento”, mi chiede. “Devo fare di nuovo la pipì”, sorride.

Non sarà incontinente, penso.

Vabbè… sono anche passate due ore dall’ultima volta che ci siamo fermati. Individuo un’area di servizio a cinque chilometri: accelero per fare più in fretta e mi incanalo nella rampa di uscita verso lo stabile esterno dei bagni. “Ti aspetto qui…”, le urlo dietro, mentre la vedo catapultarsi fuori dall’auto. Certo che deve proprio scapparle, penso.

Rimango da solo in auto: la prima volta da più di ventiquattr’ore.

Respiro forte, troppo forte.

Ansimo.

Sento una strana sensazione assalirmi così all’improvviso…..

Le mani mi sudano.

Le palpebre tremano.

Rivivo il flash-back di un soggiorno vuoto, una camera vuota, una cucina vuota, un biglietto vuoto, un’anima vuota…

Respiro affannosamente.

Sto iperventilando.

Mai più…

Penso: MAI PIÙ!

Come in preda a un raptus scendo dalla macchina, scarico lo zaino dal cofano e lo appoggio frettolosamente contro un bidone della spazzatura strapieno. Metto in moto e sgommo per allontanarmi velocemente dalla piazzola. Mentre supero la pompa del GPL, intravedo Aurora che esce dal Motel e si gira intorno con area spaesata, poi un TIR con targa tedesca lento mi sfila davanti. Dopo non la vedo più: io sono già in autostrada e lei deve aver raggiunto la piazzola e aver trovato il posto vuoto…

Deve aver già visto lo zaino a terra, oramai.

Magari starà pure piangendo, ma io no… non sono ancora pronto io.

Non posso lasciare tutto questo…

Questa lingua nera d’asfalto è tutto quello che ho.

Tutto quello che mi resta.

Cambierò.

Cambierò, un giorno: lo giuro.

Un giorno vivrò.

Ma non ora.

È questa la mia casa, adesso.

È qui che io sono…

Vivo.