Made in China

Era caldo, troppo caldo lì dentro. Il retrocucina del ristorante puzzava di involtini primavera e piscio di gatto.

Salvatore Tarzan’ sudava e bestemmiava come un maialino nero dell’alto casertano. A un certo punto saltò in piedi, si avvicinò a una catasta di scatoloni e provò a sbirciarci dentro sollevando le alette di cartone: “Chissà che cazzo ti fanno mangià qui dentro!”, sbraitò spazientito, grattando con un’unghia grossa e tozza degli indecifrabili ideogrammi cinesi. Che cazzè questa cosa? Merda di cane marinata?! E questaltra schifezza gialla?!.

O Pazzariello neanche lo guardava. Se ne stava seduto in un angolo – arroccato sopra uno sgabello di legno come un centurione romano – e aveva lo sguardo fisso e vigile su un’apertura che metteva in comunicazione il vecchio deposito con la cucina. Quello che rimaneva di una tenda rossa separava i due ambienti. C’erano, poi, tre o quattro di questi cinesi – chi può dirlo, sono tutti uguali! – che facevano avanti e indietro, caricandosi sacchi di riso sulle spalle e barilotti di birra cinese fatta col detersivo, e scatoloni con dentro chissà che quale altra schifezza.

Ma vuoi mettere un bello spaghetto a vongole?!

Un amico mio lhanno ricoverato una settimana al Cardarelli, dopo che, una sera, è venuto a mangiare in un posto come questo!, sbottò a un certo punto Tarzan’, con quella sua voce secca e roca come un’impastatrice. Ti giuro, Peppì!, aggiunse quasi cercasse dal più anziano una certa qual dose di approvazione. L’uomo continuò a respirare piano, quasi niente, e a tenere lo sguardo fisso sulla tenda: Assettate…”, si limitò a mormorargli.

Ma insistette quello più giovane avvicinandosi di due passi – lo conosci sicuro pure tu a Giuvann’ ‘O Capraro: chiediglielo quando lo vedi!.

PeppeO Pazzariello si girò di scatto e lo guardò come se si fosse accorto di lui solo in quel preciso momento: Se non tassiette subito, ti sparo in bocca!, gli ripeté duro, lisciandosi la tasca dei calzoni con un gesto secco e autoritario. La camicia blu era aperta sul petto e dalla scollatura si intravedeva un grosso crocifisso d’oro e un mucchietto di riccioli più bianchi che neri: da che mondo è mondo era lui a dettare i tempi e i modi dell’azione. Salvatore Piscopo, detto Tarzan’, non poté far altro che abbozzare e appollaiarsi su un fusto di birra come un pappagallo a cui hanno strappato la lingua e le penne dal sedere.

O Pazzariello guardò l’orologio: le sette meno un quarto. L’appuntamento era per le sei e mezzo, e questo quarto d’ora di ritardo un po’ gli rompeva le palle, un po’ lo preoccupava. Con chi cazzo credevano di avere a che fare ‘ste merde di cinesi?! Ma lo sapevano chi era lui, e – soprattutto – chi lo mandava qua?

Non avesse avuto degli ordini precisi dal Boss, di prendere il pezzo, pagare e tornare a casa, ne avrebbe già ammazzato uno o due di questi stronzi gialli proprio lì, in mezzo ai gelati fritti, soltanto come scusa per far passare il tempo. Ma poi di sicuro sarebbe andato tutto a puttane, e questo non poteva permetterselo. Non là, non in quel momento: non con quella cazzo di guerra che li aspettava là fuori.

Già, la guerra… era cominciata da neanche un anno e già c’erano stati 48 morti! Due mesi prima, si erano cucinati pure suo fratello Mariano, povera bestia.

I Ragazzini: erano stati loro che avevano iniziato a sparare, quei figli di puttana!

I Ragazzini così li avevano chiamati i giornali tutti sotto i trent’anni, erano comandati da Mino Ricciardi, un ex tossico di Forcella, che chissà come era arrivato a sposarsi quella rimbecillita col culo appeso di Amelia, la figlia del capo, e che, a un certo punto, aveva deciso da solo che era arrivato il momento di rinnovare il clan, trattando lui gli affari; scegliendo chi pagare e chi no; affiliando persone nuove; facendo la pace con i nemici di sempre.

Cesarino ‘O Vaccar’, il vecchio boss, proprio non poteva tollerarla una mancanza di rispetto come questa, e – per prima cosa – aveva cercato di convincere il genero con le buone, poi – constatato che era una testa di cazzo al quadrato – gli aveva lanciato contro l’anatema del Clan, e ora il territorio tra Grazzanise e Cancello Arnone, giù fino a Vico, era diventato il campo di battaglia in cui fronteggiarsi.

E intanto, come al solito, tutti gli altri alla finestra: le famiglie dei Comuni vicini, dai Corvino ai Pagano, dai Marino ai Pallante, ad aspettare chi vinceva, per andare poi a ritrattare con comodo gli accordi. E pure gli sbirri, che tanto – se pure non lo dicono sui giornali – più ci si ammazza e più ci godono!

Questa cosa andava risolta una volta e per tutte.

E in fretta, pure.

Mentre rimandava a mente i morti delle ultime due settimane, la tenda rossa si aprì di scatto, però questa volta, invece di quei soliti tre/quattro cinesi con la camicia bianca tutta sudata e il pantalone – di due taglie più grande – tenuto su con una cintura tutta spelacchiata, si affacciarono dentro il retrobottega due bestioni vestiti di nero e con gli occhiali da sole scurissimi, che sembravano usciti da quel film americano Grosso guaio a Chinatown.

Peppe ‘O Pazz’ saltò in piedi e si toccò d’istinto la tasca dei calzoni. Pure Tarzan’ si asciugò la fronte con la manica della camicia, e gli si mise di fianco, sull’attenti, manco fossero stati due Carabinieri passati in rassegna. Rimasero così, tutti e quattro in silenzio per un minuto o forse un’ora, con i muscoli tesi e le goccioline di sudore che scendevano lente lungo il collo taurino, poi uno dei cinesi accennò un saluto con la testa, e gli altri due si rilassarono. Un tavolaccio di legno, messo di traverso, li separava dal primo dei gialli in nero, quello che in mano teneva una grossa borsa di nylon rossa e blu, come quelle della palestra, o degli autostoppisti. La poggiò sul tavolo con un tonfo sordo. Qualcosa di metallico, all’interno, tintinnò. Poi il cinese sorrise, con un ghigno tra l’ebete e il malizioso. Aprì la sacca, sollevò delicatamente uno strano aggeggio di metallo cromato e lo posò sulla porzione di tavolo rimasta libera. Poi le sue parole calarono svelte, stridule, quasi ossessive.

Shā! Shā!

Ahhhh?

Shā! shā hài!

Cheeee??!

“Shā hài! shā hài!”

Tarzaniell’! Vir’ chisto che cazz’ dice!, sbottò alla fine Peppe.

Uccidele… uccidele!, cercò, allora, di spiegarsi meglio il cinese, mimando il gesto del fucile con le braccia.

‘O Pazzariell’ si avvicinò al bordo del tavolo, poi – con due dita – tastò il metallo freddo e lucido di quell’aggeggio così strano, a mezzo tra una pistola automatica e un Autovelox della stradale.

Era quello, allora, il Raggio della morte che aveva comperato il capo dai cinesi: l’arma definitiva, quella in grado di mettere a tacere per sempre il nemico. L’ultimo prodotto della tecnologia bellica della Repubblica Popolare, una delle armi più potenti che l’uomo avesse creato fino ad allora, qualcosa che stava a metà strada fra le pistole laser e quelle al plasma, in grado di perforare anche armature in Kevlar e lastre di metallo spesse 5 centimetri. E poi, oltre a bruciare, perforare e incenerire le persone con un solo colpo, un giocattolo come quello era pure capace di bloccare macchine e camion, perché il suo impulso energetico interferiva con i sistemi elettrici di iniezione e mandava il motore in panne.

Messa così, la guerra era praticamente vinta e non solo la guerra: da allora in poi, nessuno si sarebbe più potuto mettere contro i Vaccari. Non I Ragazzini, non le vecchie famiglie, e nemmeno gli stronzi dei poliziotti. Questa sarebbe stata l’alba di una nuova era. E loro i nuovi padroni!

‘O Pazzariell’ fece un segno a Tarzan‘ e questo subito indietreggiò di un paio di passi per recuperare da una sedia di legno addossata alla parete una ventiquattrore di pelle rigida. Poi glie la passò. “Cinquanta…”, disse Peppe aprendola davanti al collega-camorrista-cinese, e mimò un cinque con la mano destra aperta. Lui fece di sì con la testa, afferrò la borsa coi cinquantamila euro, e, senza neanche contarli, si dileguò assieme al compagno dietro la tenda rossa, lasciando i due italiani a contemplare da soli quello strano ordigno.

Peppe e Salvatore, allora, si guardarono negli occhi dubbiosi, come a chiedersi a chi dei due sarebbe toccato di caricarselo in spalla. Poi, il più anziano – passato un attimo di iniziale smarrimento – ritrovò il piglio autoritario di sempre: afferrò la pistola laser con decisione, la soppesò un secondo tra le mani, e, alla fine, la ficcò di nuovo nel borsone, uscendo carico da una porta sul retro. Assieme, si rimisero in auto e se ne andarono.

Per un bel tratto, nessuno dei due parlò. Entrambi lanciavano delle occhiate preoccupate al borsone, che ballonzolava sul sedile posteriore. Salvatore Tarzan’, che guidava l’auto, a un certo punto, rallentò di colpo, come se gli fosse venuto in mente qualcosa. Guardò la sacca dallo specchietto retrovisore, e iniziò a evitare meticolosamente le buche nell’asfalto.

Con quest’andatura raggiunsero il centro della città senza fretta. Il capo li stava aspettando a casa, una villa in stile Hollywoodiano che avrebbe fatto impallidire pure Scarface. Avevano appena imboccato Viale Misericordia, e avrebbero dovuto girare solo un altro paio di volte per giungere a destinazione, quando la Mercedes scura che avevano davanti frenò bruscamente. Dall’auto scesero in tre, incappucciati e armati con due pistole e un mitra.

Salvatore ingranò d’istinto la retromarcia, ma altri due uomini su una moto di grossa cilindrata, gli bloccarono la fuga. Peppe ‘O Pazzariello, prese allora l’iniziativa: tenendo la testa bassa, si catapultò sul sedile posteriore e afferrò la borsa di nylon. Tirò fuori il Raggio di morte e pigiò deciso il tasto rosso di accensione.

La pistola si attivò con un ronzio, quindi – prima ancora che gli assalitori potessero rendersene conto – dal finestrino aperto la puntò contro la Mercedes, con l’intenzione di farla esplodere e ritagliarsi una via di uscita. Prese la mira e premette il grilletto con decisione.

La pistola laser rilasciò tre lunghi bip e alla fine si spense.

‘O Pazzariell’ la guardò attonito, poi squadrò i tre uomini armati davanti a lui. “Sti cazz’ ‘e cinesi!”, fu il suo ultimo pensiero, prima che una raffica di mitra lo tagliasse in due.