La collezione

Ha un culo enorme. Grasso, sformato.

Due placche oceaniche che si incontrano, in mezzo la faglia di SantAndrea: se scoreggia, viene fuori un terremoto di magnitudo dieci.

Me lo sono chiavato un culo così, una volta. Lei si chiamava Mena, faceva la commessa al Despar da un anno. Due occhi azzurri, grandi come il mare. Per il resto, fisico da brontosauro e tette al ginocchio.

Però simpatica.

“Volete Commissario?”: Luciano Aprile si tiene a pochi centimetri dalla mia faccia. Da qui, posso distinguere nettamente il suo alito di sigarette, alcol e gomma da masticare alla fragola. “Giusto un goccio: vi riscalda!”, insiste passandomi un mignon di Amaro Averna.

“Ma ti pare il momento!”, sbotto.

Però – subito dopo – ci ripenso, afferro al volo la bottiglietta e tiro un lungo sorso per aggiustarmi lo stomaco.

Brrr…bene!

“Chi l’ha trovata?!”, chiedo poi, spostando lo sguardo dal corpo ad Aprile e viceversa. Una nuvoletta di vapore alcolico mi esce dalla bocca e si impenna nell’aria fredda del mattino.

“Quello là. E’ il proprietario del terreno…”, mi indica col mento una specie di spaventapasseri lì fuori, nel campo, con una camicia a quadri, pantaloni di tela imbrattati di terra e mani grosse e callose. Ha un ciuffo di capelli bianchi, ritti sulla testa come una scopa.

“Mmmm… e l’hai già sentito?”

“No”.

Alzo un sopracciglio stizzito.

Lui tossisce.

Ehm… insomma… – corregge il tiro – ha detto che l’ha trovato stamattina alle sei, quando è venuto in campagna ed è entrato ad accendere il generatore per la pompa del pozzo artesiano.

Mancava sulla zona da un paio di giorni. Ha uno sfasciacarrozze a Capua, lui, e il contadino lo fa solo come secondo lavoro. Poco più di un hobby”, precisa cercando di giustificarsi.

Registro l’informazione infilandomi le mani in tasca. Quindi lascio Aprile indietro di un paio di passi – tanto per rimarcare la distanza abissale che c’è tra noi due – e mi avvicino lentamente al cadavere della donna.

Dalla scena del delitto è possibile ricavare un sacco di informazioni, sia sulla dinamica dell’omicidio, sia sulla personalità dell’assassino. Per questo ho chiesto a tutti gli altri di aspettare fuori. Anche al medico legale. Per riflettere in santa pace.

La scena è stata congelata dal nastro bianco e rosso posizionato dai due colleghi della Volante che è intervenuta sul posto per prima. È agganciato a un tavolo di ferro – addossato a una parete del casotto – e, dall’altro lato, al battente di una piccola finestra in alto: soltanto due assi incrociate, col cellophane al posto dei vetri. Pale, roncole e attrezzi agricoli sono disseminati un po’ dovunque, e agganciati alle pareti.

Nulla è stato toccato.

Ho solo qualche minuto, prima di lasciare il campo al lavoro della scientifica.

Il corpo della donna – dal culo direi quarant’anni al massimo – giace in un angolo, abbandonato a faccia in giù su una decina di sacchi di concime in grani.

L’incarnato è ceruleo, e presenta già i primi segni del decadimento post mortem.

Il casotto – che il proprietario del terreno usa come ricovero per gli attrezzi e per ripararsi quando piove – è interamente fatto di legno. Pianta quadra, al massimo tre/quattro metri per lato. Il tetto è di lamiera, e se non fosse gennaio ci farebbe un caldo boia.

Si trova in fondo alla proprietà, al termine di una stradina sterrata che taglia il campo in due. All’ingresso c’è una sbarra di ferro, ma senza lucchetto.

E per arrivare qua in cima, ho inchiavicato tutta la macchina!

Dopo mi toccherà passare al car-wash, merda.

Lo dico io: non mi pagheranno mai abbastanza per questo cazzo di lavoro.

Mi avvicino al nastro, provo a strapparlo con le mani, alla fine lo taglio coi denti. La donna è nuda, le mani sono abbandonate lungo i fianchi.

Non ci sono particolari segni di violenza, solo un paio di lividi su una chiappa. Magari è stata strangolata, ma i capelli rossi che le scendono sulla nuca – per il momento – mi impediscono la visuale del collo.

Le piante dei piedi sono pulite. Potrebbe darsi che c’è stata trasportata quaggiù.

Eppure mi ero fatto l’idea che fosse entrata qui dentro con qualcuno, in cerca di intimità. Insomma, non è il massimo come alcova, questa, ma una sveltina ci riesce più che bene. Basta solo stare attenti a non finire impalati su una zappa.

O magari – rifletto ancora – aveva ancora addosso i calzini, che ne so, e chi l’ha uccisa ha fatto un bel pacchetto con tutta la sua roba e se l’è portata via. Per non lasciare tracce biologiche, evidentemente.

Già: con tutte le trasmissioni che ci stanno facendo sugli omicidi, li stanno istruendo di brutto. Oramai gli assassini conoscono tutti i trucchi per farla franca. Farabutti loro, e quei pallemosce della televisione!

L’odore ammorba l’aria.

Vabbè: per il momento può bastare.

Vediamo il resto…

Faccio un passo indietro verso la porta, rivolgo uno sguardo a De Filippo – il medico legale – che annuisce ed entra, spingendo via Aprile.

In un istante, gli uomini della scientifica si sistemano a raggiera intorno al corpo. Indossano copriscarpe di plastica e cuffiette per trattenere i capelli.

De Filippo mi guarda e poi si concentra sul corpo: “Va bene, andiamo a imprincipiare…”, sospira accovacciandosi con una fatica che a me pare disumana. Per prima cosa si aggiusta i guanti di lattice sulla punta delle dita, poi afferra il polso della vittima, e lo lascia ricadere mollemente sui sacchi. “Più di cinque giorni… magari una settimana. Fa freddo qui”, mormora cercando il mio sguardo.

Il verbo sottinteso è: è morta.

Annuisco.

“L’ha ripulita. La pelle è come se fosse stata strofinata. C’è polvere, ma quella si è posata dopo, qui dentro”, aggiunge sfregandole una spalla con l’indice e mostrandomi l’alone scuro sulla punta del dito. “Terra, vedete?”

Annuisco di nuovo.

Un uomo della scientifica si affanna a scattare una serie di fotografie da tutte le angolazioni possibili, ronzandomi davanti come un moscone. Poi rimane in attesa, con la macchina e il suo lungo obiettivo fra le mani, come se si stesse tenendo l’uccello.

De Filippo se ne accorge e fa segno ad altri due di fianco alla porta: “Bene, rigiriamola”, dice. Quindi si alza, schiacciandosi con la schiena a una parete del casotto. I due tecnici si muovono a scatti, coordinando i gesti. Un colpo secco e la voltano sulla schiena, ritraendo subito lo sguardo.

Aprile è il primo a uscire dalla piccola stanza, e lo vedo correre fuori e chinarsi sotto un platano per vomitare. De Filippo fa per avvicinarsi, e subito si blocca, portandosi una mano guantata alla bocca.

“Merda!”, riesco soltanto a dire.

La ragazza ha gli occhi sbarrati.

Verdi.

I capelli sono sciolti, e le ricadono sul collo in mille riccioli inanellati.

Ma non è quel particolare dello sguardo fisso a turbare i presenti, né le tette – grandi e grosse come cocomeri – né l’involontaria oscenità del suo nudo.

Ciò che ha sconvolto la squadra è che – al cadavere della ragazza – manca completamente la pancia. Un lungo squarcio le parte da sotto lo sterno, e arriva fin sopra il pube: un’intera striscia di carne è stata asportata.

Tagliata via.

“Non se ne può più con questi maniaci… tutta colpa dei film americani!”, sbotta De Filippo, tirando fuori un piccolo bisturi da una borsa nera che si è trascinato dietro. Con quello inizia a tastare il ventre martoriato della ragazza, provando a sollevare pezzetti di tessuto.

Trattengo un conato e per qualche minuto seguo il suo lavoro in religioso silenzio.

“Strano…”, mormora.

“Cosa?”

De Filippo alza lo sguardo dal corpo, si sfila gli occhiali, e mi guarda da sotto le sopracciglia nere. “Cioè, sembra quasi che le abbiano fatto una liposuzione…”.

Sbarro gli occhi: “In che senso?”

“Quello che ho detto: tutto il grasso addominale è stato asportato, ma per il resto non è stato toccato nulla. Le fibre muscolari dell’addome sono integre e il pacco intestinale è al suo posto.

E anche tutto il resto a quanto pare…”, conclude, stuzzicando i lembi della ferita con la punta del bisturi.

“Stiamo parlando di un chirurgo? Qualcuno del mestiere?”, chiedo.

Magari potrebbe essersi trattato di un intervento estetico finito male. Una clinica clandestina in zona… che ne so!

Non volevano avere casini, e allora hanno cercato di sbarazzarsi del cadavere.

“Non direi. La mano è grossolana, e poi non è certo questa la modalità di intervento”, mi risponde dopo averci riflettuto per qualche secondo.

Lo guardo interrogativo. De Filippo si rialza facendo leva sulle ginocchia e attacca: “Generalmente, in    questo tipo di operazione, i depositi adiposi vengono risucchiati tramite sottili cannule collegate ad un aspiratore e inserite all’interno del pannicolo adiposo.

Si agisce in endoscopia, attraverso incisioni millimetriche praticate in punti nascosti e camuffate dalle pieghe naturali del corpo per essere visibili il meno possibile…”. Fa una breve pausa, poi con la mano aperta indica lo spettacolo di morte che ci è stato apparecchiato davanti: “Non mi pare che chi l’ha uccisa abbia avuto tutta questa accortezza: si è limitato a incidere la pelle e staccarla, poi ha raschiato via tutto il grasso sottocutaneo, fermandosi prima di arrivare agli organi”.

Lancio al corpo un’ultima occhiata.

Lo sguardo mi cade inevitabilmente sulle tette, grosse e tonde nonostante l’abbraccio della morte: “Quanta roba sprecata!”, sospiro.


 Aprile solleva lo sguardo sbigottito. Siamo nella mia stanza a verificare una serie di segnalazioni. È trascorsa quasi una settimana dal ritrovamento della ragazza – in quel capanno lì in campagna – ma non è emerso ancora nulla. Cioè, proprio niente di niente.

Cazzo!

Non sappiamo neanche come si chiamava. Solo l’età approssimativa, peso e taglia di reggiseno. Un po’ pochino per imbastirci una indagine.

Possibile che nessuno abbia denunciato la sua scomparsa?

Eppure due tette come quelle mancheranno pure a qualcuno!

Mi gratto la pancia deluso.

“Commissario Iodice, avete visto questo?!”. Il mio assistente – sudando come una fontanella – mi passa un verbale autoptico e una serie di fotografie in bianco e nero.

“Che roba è?”

“Una ragazza… nigeriana, pare. E’ stata trovata cadavere circa un anno fa”.

“Dove?”

“A Calvi Risorta…”

Calvi

“Dai qua!”, sbotto.

Aprile mi passa la cartella, e rimane a bocca aperta, a far prendere aria ai denti. Io ignoro il suo sguardo risentito, e prendo a scorrere le foto.

Il corpo della ragazza è ritratto prima in fondo a un fosso: si vede soltanto la schiena, il resto è coperto dalla vegetazione. Poi è sulla sterrata, circondato dalle divise di alcuni carabinieri. Devono essere gli stessi che l’hanno tirata fuori. Quindi è sul tavolo operatorio, che luccica alla luce del flash.

Studio le immagini.

Era una cicciona enorme, così grassa, da sembrare due.

Il referto dell’autopsia parla anche di due grosse porzioni di carne e grasso corporeo asportate dai fianchi. Nessuno ha collegato le due cose fin’ora, perché all’epoca si era ritenuto che il corpo fosse stato martoriato dagli animali. E così il fascicolo era finito nel faldone dei casi archiviati senza un colpevole. Il solito regolamento di conti nell’ambiente della prostituzione di strada, insomma. A leggere il verbale, però, le analogie col caso che ho per le mani sono parecchie: metti soltanto lo scempio dei corpi.

Difficile che ci siano in giro due serial killer con lo stesso vizietto…

“Cazzo, un collezionista!”, batto una mano sul tavolo.

“Cosa?”

“Aprì, ma ci sei o ci fai?

Ci troviamo di fronte a un collezionista, non l’hai ancora capito?

Solo che – questo – non si dedica mica alle farfalle o i francobolli, come qualsiasi persona normale. Questo preferisce le chiattone!”.

“Chiattone?

E che se ne fa, poi, di tutto questo grasso?”, mi fissa perplesso.

“Trofei, Aprile. Trofei…”


Metto in moto ed esco dal parcheggio della centrale. Lotto con i semafori e finalmente arrivo all’Ospedale San Sebastiano di Caserta. Non mi preoccupo di cercare un parkimetro: afferro un post-it giallo dal cassettino e ci scrivo sopra: POLIZIA. Poi lo appiccico sul cruscotto.

Scendo nei sotterranei del Reparto di medicina legale passando per una scala di servizio. De Filippo, il patologo, sta completando l’esame autoptico di un ragazzo e ha appena radiografato le fratture. Le lastre sono esposte su un pannello luminoso attaccato alla parete.

“Incidente stradale… 23 anni”, sospira quando mi vede entrare nella sala autopsie. È un ambiente ampio, tutto vernice epossidica e piastrelle bianche, con il soffitto chiaro e un’illuminazione fredda e filtrata. C’è un tavolo d’acciaio, al centro della stanza, posizionato accanto a un lavandino, con controllo a pedale e manichetta spray. C’è anche un vecchio computer sulla scrivania e, in un angolo, un carrello con gli strumenti chirurgici e due lampade alogene coi bracci flessibili.

“E’ la vita…”, trovo il coraggio di rispondere.

“Semmai, è la morte…”, mi sorride di rimando. Ma è un sorriso triste.

Annuisco.

E già: è tutto una gran fregatura!

Sento il bisogno di giustificare la mia presenza in quello che, a tutti gli effetti, è il suo sacrario: “Sono passato a vedere se ci sono novità sull’omicidio di quella ragazza di Capua…”, dico con la voce ridotta a un mormorio.

De Filippo interrompe il suo lavoro per rispondere: “Ho quasi terminato, stavo stendendo la relazione…”, mi dice, indicandomi una sedia di fronte alla scrivania. “Ecco, ce l’ho qui sul p.c.”, aggiunge.

Stacco la sedia dal tavolo e mi siedo riempendola.

De Filippo si schiaccia sullo schienale della sua poltrona, con la mano sul mouse e lo sguardo fisso sul monitor: “Ah, ecco qua…”, esclama. Poi prosegue, con voce bassa e calma: “La prima impressione che avevo avuto è quella giusta: l’assassino le ha praticamente staccato tutto il grasso adiposo dalla pancia. Nient’altro. Intestino, utero e ovaie, sono al loro posto. E, se può essere di una qualche consolazione, non ha nemmeno abusato di lei… ne’ da viva, né da morta”, sospira.

È già qualcosa…

“Ed è stata ehm… operata lì, a Capua, in campagna?”

“No. Questo è da escludere.

Per quanto il lavoro sia stato accorto, e l’assassino si sia preoccupato di somministrare alla ragazza della epinefrina, un farmaco vasocostrittore, avrebbe comunque imbrattato tutto di sangue.

No, il casotto non è la scena primaria.

Chi le ha fatto il servizio, ha avuto bisogno di calma e tempo…”

“Già…”, concordo. In quel momento, un assistente in camice bianco si affaccia alla porta: “Dottore, la vogliono in Direzione Sanitaria…”, dice.

“Bene, arrivo”, risponde De Filippo congedandolo. Poi si rivolge a me: “Che vuole che le dica, Commissario, è un tempo strano, il nostro. Dobbiamo sopravvivere come meglio possiamo… e adesso se vuole scusarmi…”, si alza faticosamente dalla poltrona, facendo scricchiolare le ginocchia.

“Sì, devo andare anche io”, dico.

Mentre mi avvio alla porta, però, De Filippo mi richiama: “Non so se è importante – dice – ma quella che ho trovato addosso alla ragazza non era terra. Era ruggine”, la butta là. “Se può significare qualcosa…”.

Ringrazio e saluto, abbandonando la sala dalla stessa porta per cui sono venuto.


In ufficio, il giorno dopo, sono concentrato sulle ultime parole di De Filippo. Torno con la memoria al giorno del ritrovamento del corpo e al casotto in aperta campagna. “Ruggine… ruggine sul corpo”.

Improvvisamente questa notizia mi sembra una rivelazione. Ma certo: ruggine!

“La baracca era di legno, e la lamiera del tetto zincata: ruggine!”, esclamo. “Come c’è finita la ruggine sul corpo della ragazza?!”

Aprile mi guarda e non capisce.

Seeee, buonasera!

Mi muovo verso la parete di fronte alla mia scrivania, su cui è attaccata con le puntine da disegno una vecchia piantina della provincia di Caserta. Su una lavagnetta di sughero, poco distante, ci sono le foto dell’ultima vittima e quella di un anno fa, la ragazza nigeriana ripescata in fondo al fosso. A riguardarle con attenzione, sembra davvero la stessa mano.

“Capua…”, mormoro. “Calvi Risorta…”.

Quanto sono distanti?

Quindici chilometri, al massimo!

È una strada dritta… tutta statale.

Passo in rassegna i volti di Aprile e Mottola – un altro agente della mia squadra – che mi osservano perplessi. “Che lavoro hai detto che fa il proprietario del terreno dove abbiamo trovato la seconda ragazza?”, chiedo.

“C’ha uno scasso… – mi risponde Aprile – uno sfasciacarrozze alla periferia di Capua… mi pare dietro la Pierrel, quella fabbrica di medicinali che ha chiuso due anni fa”.

Eccitato come un ragazzino, corro ancora vicino alla cartina attaccate alla parete.

“Vedete?

La Pierrel sta qua…”, faccio un cerchietto con un evidenziatore fuxia. “Il terreno col casotto sta qua…”, ne faccio un altro. Indietreggio di un paio di passi, poi di nuovo metto mano alla cartina: “E Calvi Risorta, invece, sta qua”, traccio l’ultimo cerchio.

Fisso Aprile e Mottola che annuiscono.

Piano piano vedo che ci stanno arrivando anche loro.

Sfasciacarrozze vuol dire ferro, ferro vuol dire ruggine. Com’è che non c’ho pensato prima?!

“E va bene, ho sbagliato”, dico alla fine. “Ho fatto un errore di valutazione: non pensavo che un assassino fosse così stupido, da nascondersi un morto in casa, e poi mettersi a chiamare lui stesso la polizia!

Non esistono più i mostri di una volta…”

Vedo accendersi una scintilla malvagia nello sguardo di Aprile. Accade ogni volta che commetto una leggerezza: per lui sarà una specie di rivincita. Che stronzo.

“Comunque, siamo ancora in tempo!”, lo rimetto al suo posto, con un tono acido.

Lui rimane a bocca aperta. Non c’è più molto da dire.


Nello sfasciacarrozze non c’è nessuno.

Neanche uno straccio di cane a fare la guardia.

“Strano…”, penso.

Attraversiamo un cancello – che è stato semplicemente accostato, con una catena legata attorno alla maniglia – e ci ritroviamo in un largo spiazzo asfaltato.

Un container arrugginito si trova in mezzo ad un campo di rottami, circondato da carcasse di automobili. Sulla destra una pensilina di ferro e mattoni, e altre auto, questa volta meno malandate, coperte con dei lunghi teloni cerati. Un deposito giudiziario, di quelli utilizzati dalla Procura per le auto finite sotto sequestro.

Lancio un’occhiata in giro, poi avanziamo con cautela verso il container.

Con me ho portato solo Aprile e Mottola, un altro paio di ragazzi li ho lasciati di guardia alla macchina. Ci avviciniamo al manufatto di ferro con circospezione. Scandisco bene sulle labbra i numeri del conto alla rovescia prima di girare la maniglia della porta. Dietro di me, Aprile e Mottola sono pronti ad intervenire.

La serratura scatta immediatamente: non è chiusa a chiave, per fortuna. Spingo la porta verso l’interno e sono il primo ad entrare. Aprile mi segue, e poi Mottola. Dalla soglia posso avere una visuale completa del container. Le pareti sono arrugginite, come pensavo. Larghe chiazze marroni si allargano sulla superficie smaltata. Su un tavolo sono ammassate alcune carte e dei fascicoli ingialliti. Ci sono anche lattine di birra vuote e un posacenere che trabocca di mozziconi. Un armadietto agganciato alla parete è aperto, sul battente interno c’è il poster di una biondona con un seno enorme.

Lo indico ai miei uomini: “Ci siamo…”, sussurro.

“Ci siamo”, confermano.

Faccio segno ad Aprile di andare a controllare un mobiletto con una fila di cassetti, riservando per me il tavolo e un vecchio computer: roba da archeologia informatica, insomma. Di quelli a manovella.

Ci mettiamo all’opera, passando al setaccio la stanza. Il computer si mette in moto con un ronzio sinistro, e ci vuole una vita perché attivi il programma operativo. Passo al setaccio i files e le cartelle. C’è un sacco di roba: per la maggior parte certificati di rottamazione e fogli excel di contabilità. Poi mi capita sotto mano una cartella. “BBW”, si chiama. La cosa mi incuriosisce, tutte le altre hanno nomi assolutamente normali: “Rottamazioni 2012” o “Richieste cancellazione PRA”.

Decido di aprirla e …o cazzo!

La cartella è piena di fotografie, saranno almeno duecento e tutte con uno stesso soggetto: donne grasse, enormi. Con tette larghe come cuscini, e culi grossi come bagagliai di un camion. C’è n’è di tutte le forme e le dimensioni: bianche, nere, rosse, a pallini. Che mangiano, che scopano, che ridono, che se la spassano al mare.

BBW: Big Beautiful Women.

Provo una stretta allo stomaco. Perché, guardando le foto, penso che quella che poteva essere una passione, si è trasformata in una mania. E quella che era una mania, è diventata un’ossessione. E quando le foto non gli sono bastate più, il nostro eroe ha pensato bene di ingrandire la sua collezione con bambolone in carne ed ossa.

Chissà che cosa gli ha fatto, qui dentro…

Macellaio!

“Ragazzi, frugate in ogni angolo, dobbiamo trovare i trofei!”, dico ai miei uomini con tono autoritario.

Mentre siamo impegnati nella ricerca, però, la porta si apre di colpo.

“Brutti ladri!”.

Aprile afferra la pistola e sposta il dito dalla posizione di sicurezza al grilletto. Un uomo sulla soglia serra le mani attorno a un oggetto che luccica in controluce. Indossa una lurida maglietta bianca, e dei jeans strappati.

È un attimo, il mio assistente non riesce a controllare i nervi e spara, colpendo l’uomo – lo stesso tizio che avevo visto sul terreno la scorsa settimana, con quei ridicoli capelli bianchi ritti sulla testa – in pieno petto.

“Farabutti… non c’è niente da rubare qua dentro!”, riesce a dire, prima che un fiotto di sangue vermiglio gli affiori sulle labbra. Poi si accascia, lasciando cadere dalle mani molli un panino al prosciutto avvolto nella stagnola.

“Mi dispiace – mormora Aprile, portandosi una mano al petto – pensavo fosse armato…”

“Non preoccuparti – rispondo – se l’è meritato”.


Non avete idea di quanto passi in fretta una settimana, quando non volete che lo faccia.

È volata in un soffio.

Per fortuna, alla fine – davanti al Procuratore e alla Commissione disciplinare – si è risolto tutto in una bolla di sapone.

Io, Aprile e Mottola, siamo stati ascoltati e creduti. Abbiamo fatto bene a reagire, hanno detto, perchè l’uomo poteva essere armato sul serio e – sebbene non siano stati trovati resti umani nel container – è più che probabile che sia stato proprio lui, il proprietario dello sfasciacarrozze e del campo dov’è stata trovata la ragazza, l’assassino seriale che stava terrorizzando la popolazione in sovrappeso della provincia.

Così, per festeggiare lo scongiurato pericolo, ho detto a Melania – la mia nuova compagna – di mettersi in tiro, che l’avrei portata a cena fuori.

Arrivo a casa con una mezz’ora di anticipo, per regalarmi una bella doccia e una rasatura con schiuma e pennello, invece del solito rasoio elettrico.

Sono alle prese con lo sciabordio dell’acqua, e nemmeno mi accorgo della porta che si apre e si chiude alle mie spalle.

“Ciao amore!”

Faccio un salto sul posto che quasi mi taglio via un orecchio. “Che cazzo Melà, avvertimi almeno!”, sbotto, col cuore che mi pulsa nel petto.

Mi appende il broncio. “Scusa… – mormora indispettita – volevo farti vedere questo”, e tira fuori da una grossa busta di carta da pacchi, una tela imbrattata.

“Questo? E cosa sarebbe questo?!”, ho appena il coraggio di chiedere.

“Come cosa?! Un quadro no?”

Lo guardo atono: lo prendo tra le mani e lo rigiro prima da una parte, poi dall’altra. C’è una specie di bufalo dipinto sopra… sembra che l’abbia fatto un bimbo di tre anni.

“Che c’è – si stupisce della mia espressione perplessa – non ti piace?!”

“Bah… non è che non mi piace, è che non ci capisco molto di arte…”, cerco di glissare, per evitare di litigare come al solito. Non voglio che anche questa relazione finisca, come i miei due precedenti matrimoni.

Anche perché, lei, invece – per aver fatto un paio di anni di Accademia – si crede una vera esperta, e mi sta riempiendo la casa con croste inguardabili, per le quali spende un occhio della testa. Dice che è la sua “Collezione”.

Bah, secondo me le hanno fatto un’altra sola!

“E dove l’hai preso questo bel capolavoro?”, chiedo ancora.

Si allarga in un sorriso enorme: “In una galleria d’arte… bello vero?

E’ di un artista brasiliano, si è trasferito in Italia un anno fa, e vive a Capua. Si chiama Neilson Pereira Carvalho: un vero genio!

Lui – continua seria – cerca di recuperare l’essenza primordiale dell’uomo. E la sua ingenuità. Per questo dipinge adottando la stessa tecnica degli uomini primitivi. Tecniche abbandonate da 45mila anni, ai tempi delle pitture rupestri nelle grotte…”

“Sarà… e perché puzza di cotoletta?!”

Lei mi guarda come se avessi bestemmiato in chiesa: “Ma non hai capito allora?!

Te l’ho detto: perché, per dipingere, l’artista si fabbrica da solo i colori, utilizzando solo elementi naturali. Come nella preistoria.

Il bianco lo ottiene col gesso, il nero col carbone, il marrone con l’ossido di ferro… la ruggine, insomma.

Scioglie il colore con uova e grasso animale, che lui stesso si procura cacciando, e con quello realizza queste opera straordinarie…”.

Straordinarie?

“Sarà… ma io preferisco pur sempre Caravaggio!”, dico, e mi asciugo via la schiuma dalla faccia.