Mano vuota, Mano piena.

Regola numero Uno: mai mettersi con una donna più giovane di venti anni.
Pure se c’ha le tette di marmo!
Regola numero Due: mai mettersi con una donna più vecchia di venti anni.
Quella – le tette – se l’è già giocate a briscola da un pezzo!
Poveraccia…
In effetti – rifletteva Iodice indispettito – meglio sarebbe non mettersi proprio con nessuna: “Risparmi soldi e salute!”, sbottò, tamburellando con le dita nervose sul volante della Giulietta. “Tre seghe alla settimana e hai risolto la metà dei tuoi problemi!”, sospirò.
Garantito.
Oramai – dopo tanti anni di pratica solitaria, tra un matrimonio e l’altro, tra una storia “d’amore” e l’altra – il Commissario della Squadra Mobile di Caserta c’aveva fatto il callo.
Ehm, i calli…
E poi – in caso di estrema necessità – c’era sempre la Statale Domitiana, no-o?
Ma allora, che ci faceva alle dieci di sera in auto, sotto a un palazzone di Macerata Campania, col riscaldamento che si era pure rotto?!
Semplice: un culo.
Dannato, vecchio vizio!
Duro a morire…
Questa volta si chiamava Sara, Guardia giurata al Centro commerciale.
L’aveva conosciuta due settimane prima, durante un intervento. Due rumeni erano stati beccati mentre svuotavano il reparto dei liquori. Tre bottiglie di whisky se le erano infilate nei calzoni. Il resto era finito direttamente nello stomaco e in quel po’ di cervello rimasto. Erano più ubriachi di un quindicenne alla gita di fine anno!
Nemmeno si reggevano in piedi.
Sara li aveva fermati mentre cercavano di uscire dalle casse barcollando con ostentata indifferenza, provando a passare per la barriera “senza acquisti”. Gli si era parata davanti come un vigile urbano, intimandogli l’Alt.
A quello più grosso, che aveva cercato di sfondare lo sbarramento, gli aveva mollato un calcio volante alla Chuck Norris sul grugno. Roba che ancora si stava tenendo il naso, povera bestia.
L’altro allora – piccolo e scuro come uno spazzacamino – si era seduto a terra, senza opporre resistenza, a parte vomitare un paio di salsicce verdognole sul pavimento.
Per Iodice, era stato amore a prima vista!
Proprio lì, tra le salsicce rigurgitate e la segatura che gli addetti alle pulizie avevano provvidenzialmente pensato di spargere sui liquami.
Con l’occhio clinico che si ritrovava – infatti – il Commissario l’aveva notata subito.
Bella ‘e papà!
Aveva lasciato ad Aprile – il suo secondo – il compito di repertare la merce assieme al Direttore del Centro e raccogliere la denuncia. Lui, invece, si era messo a fare un po’ il gradasso, mentre arrestava i due uomini. Si era pure inventato quella cosa di “leggergli i diritti” che – in Italia – non è prevista da nessuna parte, ma che fa tanto sbirro navigato.
Da film!
Insomma, alla fine – tirando in dentro la pancia per una mezz’ora buona – era riuscito a strapparle il numero e pure un invito a cena.
Sara aveva ventott’anni, capelli castani e carnagione olivastra. Oddio, non era propriamente bella, aveva gli incisivi accavallati e pure le occhiaie, ma c’aveva un culo… un culo maestoso, scolpito da anni e anni di danza. Le gambe erano perfette, le cosce ben tornite.
Iodice se lo sognava pure di notte.
In divisa da Vigilantes, ancora di più!
Era stata pure ballerina di fila al San Carlo, ma senza riuscire mai a sfondare sul serio. Così, quando un paio di anni prima – grazie alla raccomandazione del Sindaco – si era presentata l’opportunità di lavorare in una Cooperativa di Vigilanza, la ragazza aveva appeso le scarpette al chiodo, e aveva indossato la divisa.
Che, probabilmente, non era proprio un tutù rosa, ma quel culo a mandolino glielo fasciava lo stesso per bene, e questo – a Iodice – bastava!
Adesso, per tenersi in forma, Sara faceva Karate.
“Quella roba alla Bruce Lee?
Tutti calci e cazzotti in faccia?!”, aveva chiesto il Commissario perplesso, davanti a una pizza e una birra chiara da Vitiello.
Altro – con due mantenimenti sulla groppa da passare alle sue ex mogli – non poteva proprio permettersi.
La ragazza era scoppiata a ridere: “Ma quello è Kung-fu!”
Ku-che?!!”
“Kung-fu: è una disciplina diversa, cinese.
Il Karate è un’arte molto più antica, nata ad Okinawa, in Giappone”, aveva sorriso.
Iodice, perplesso, aveva dato un paio di sorsi alla birra: “Come vuoi…”, aveva mormorato, ingoiando un rutto appena in tempo. “E’ che non mi piace molto la violenza. Già ne vedo tanta, ogni giorno, nel mio lavoro”, si era rimpettito sulla sedia. “Delinquenti seri, pericolosi.
Altro che UUUAAATAAAA!!!”, aveva mimato un paio di mosse con le mani a paletta.
Sara era scoppiata a ridere divertita.
“Vedi – aveva ripreso seria, dopo una piccola pausa – la parola «Karate», in giapponese, si compone di due concetti: «Kara» che significa vuoto e «Te» che significa mano.
Kara-Te. Kara-Te.
Mano vuota, capito?”
“Sì: mano vuota, ho capito!” aveva annuito Iodice, pensando visibilmente il contrario.
Sara aveva scrollato il capo: “Questi due concetti – aveva continuato, cercando di fargli arrivare qualcosa – suggeriscono che chi fa Karate dovrebbe allenare la propria mente affinché sia sgombra, vuota da pensieri di orgoglio, di vanità, di paura, desiderio di sopraffazione…”
Iodice aveva continuato ad annuire indifferente.
“Dovrebbe aspirare a svuotare il cuore e la mente da tutto ciò che provoca preoccupazioni, non solo durante la pratica marziale, ma anche nella vita. Una disciplina che rafforza il corpo e lo spirito, insomma.
Capito?!”
Iodice, stavolta, aveva assentito convinto: “Eh, come no!
Lo mangi il cornicione della pizza?!”
Da allora erano passati quindici giorni.
Il Commissario c’aveva rimesso altre due pizze e un cornetto alla nutella da Belli di notte, ma – di scopare – ancora non se ne parlava.
Dalle profondità dei calzoni, il suo povero scarrafone  gridava vendetta!
Quella sera, tuttavia, Sara gli aveva dato appuntamento alle nove e mezza. “Ti porto io in un posticino tranquillo”, gli aveva detto ammiccando.
Il suo polso era passato immediatamente dal trotto al galoppo!
Aveva abbandonato l’ufficio all’istante, lasciando le consegne all’ignaro Aprile, e si era fiondato a casa. Barba, doccia e pure un paio di mutande pulite, che non si sa mai. Si era preparato con metodo e cura, frugando nella sua mente a caccia di particolari torbidi.
“Stasera si scopa, stasera si scopa!”, aveva canticchiato per tutto il tempo, su un motivetto di Claudio Villa.
Alle nove e un quarto, era già sotto casa di Sara.
Paziente – come durante un appostamento – aveva aspettato fino alle nove e mezza. “Le donne ci mettono sempre una vita a prepararsi”, aveva sorriso comprensivo.
Alle nove e trentacinque, aveva iniziato a sbuffare.
Alle dieci meno un quarto, a bestemmiare.
Alle dieci in punto, si era attaccato con decisione al clacson della Giulietta.
“Ma si può sapere chi è?!
Qui c’è gente che vuole dormire!”, si era affacciata una vecchina, infagottata in una vestaglia di lana, urlando indispettita da una finestra del secondo piano.
Iodice era sceso dalla macchina e si era tirato su i calzoni, sotto il pancione prominente. “Polizia, signora!”, aveva detto con tono autoritario.
La vecchina si era ammutolita di colpo.
“Un’operazione ufficiale”, aveva aggiunto per rafforzare il concetto. “Devo assolutamente vedere la signorina Sara…”
“Sara?
Sara mia nipote?!
E che è successo?! O Dio mio, o Madonna mia, o San Giuseppe, o Sant’Anna!”
Iodice l’aveva interrotta brusco: “Signora, il calendario sono trecentosessantacinque giorni. Li vogliamo dire tutti oggi i santi?!
E cavolo!
Forza, fatemi scendere Sara, che dobbiamo andare in Questura per un riconoscimento”, improvvisò.
La vecchia si mise una mano alla bocca: “Ma Sara non c’è!
Il martedì sera va in palestra… Oddio, di solito per le nove torna.
E’ successo qualcosa Commissà?!
Sì, me lo sento: è successo qualcosa!”, si mise le mani nei capelli bianchi, legati alla meglio in uno chignon approssimativo. “O Gesù mio, o Madonna mia, o San Giuseppe, o San Pietro, o San Giovanni…”
Iodice la piantò in asso sulle Anime del Purgatorio e si rimise in auto.
Certo che era proprio strano!
Se Sara – rifletteva il Commissario – gli aveva dato appuntamento alle nove e mezza, contava certamente di liberarsi. “Beh, magari ha fatto tardi… staranno ancora facendo allenamento…”, cercò di tranquillizzarsi.
Provò a chiamarla al cellulare.
Staccato.
Cazzo.
E se fosse davvero successo qualcosa?!
Magari si è fatta male, ha preso un brutto colpo e l’hanno portata all’ospedale, convenne. “Hai voglia a dire mano vuota, mano vuota.
Un cazzotto in faccia fa male sempre.
Vuoto o pieno!”.
Prese la direzione dell’ospedale, ma – prima – decise di passare per la palestra di Karate.
La ragazza gli aveva detto che stava sempre a Macerata, in una traversa cieca di via Roma. “E’ quella del maestro Sasuke Golino”, gli aveva detto orgogliosa. “Beh – aveva precisato – veramente lui si chiamerebbe Salvatore, ma Sasuke fa molto più orientale. E poi è cintura nera quinto dan!”.
‘Sti cazzi, avrebbe voluto risponderle: contando i buchi della cintura che aveva fatto negli ultmi anni, per farla passare attorno al ventre prominente, ne trovò almeno sette, altro che quinto dan!
Ma il suo istinto – e la speranza di scopare – l’avevano invitato a desistere. Così aveva anche dovuto sorbirsi tutta la “affascinante e avventurosa” storia di questo Sasà/Sasuke, esperto di Karate, diplomato in Giappone sotto la guida del Maestro Hiroshima e Nagasaki.
Boh, magari non era proprio quello il nome del Maestro, ma chi se ne frega!
Cazzi suoi, se gli piaceva di mettersi un pigiama bianco addosso e sparare calci di qua e di là, come una scimmia impazzita.
Lui preferiva il biliardo, sport serio, professionale e soprattutto pulito.
Svoltò su via Roma, poi nella traversa. Rallentò. Arrivò in cima al vicolo.
L’insegna della palestra: “Oriental Tiger Dojo”, era spenta. Ma – dietro un vecchio fiorino – vide parcheggiata la Nissan Micra di Sara.
“E che ci fa questa ancora qua?!”, mormorò tra i denti.
Strano.
Molto strano.
Fece inversione e parcheggiò sulla strada principale, poi rientrò nel vicolo, approfittando dell’ombra dei balconi. Si avvicinò all’auto di Sara, dette una scrollata alle maniglie: erano chiuse. Il motore freddo.
“Questa macchina sta parcheggiata qua da almeno tre ore”, sibilò, rimandando a memoria il terzo capitolo di tattica poliziesca. “Ma allora lei che fine ha fatto?!
L’hanno portata via in ambulanza?
Con la macchina del maestro?
Che cazzo sta succedendo?!”
Abbassò le braccia sconfortato.
Mentre stava risolvendosi per tornare alla macchina e dare finalmente un’occhiata in ospedale, un urlo strozzato attirò la sua attenzione.
Tese l’orecchio.
Nient’altro per una manciata di minuti.
“Sarà stato un gatto!”, pensò allora girando i tacchi.
Poi – mentre si stava incamminando verso l’auto – un altro urlo, questa volta più distinto.
“Il gatto e il cazzo!
Questa è Sara!”, sbottò, avvicinandosi alla porta della palestra. Tirò la maniglia: era chiusa.
“E adesso come entro?!”, pensò frustrato.
Si diede un’occhiata intorno. La palestra era stata ricavata in un vecchio garage. Prima, là, c’era una officina meccanica. Dietro un cassonetto della spazzatura, notò ancora un portello, per lo scarico degli oli esausti.
Iodice si avvicinò speranzoso.
Infilò due dita nella fessura tra il battente di ferro e lo stipite.
Cazzo: era aperto!
Con destrezza, riuscì a spalancarlo senza farlo cigolare. L’apertura non era più alta di un metro, ma – tirando in dentro la pancia e abbassandosi sulle ginocchia anchilosate – sarebbe riuscito a passare.
Si ritrovò al buio, dietro alcuni scatoloni, in un locale stretto e lungo come un corridoio. Tirò fuori l’accendino: alla fiammella tremula realizzò di trovarsi in un ripostiglio. Qualche scopa spennacchiata era posizionata in un angolo, su uno scaffale di legno e metallo erano impilati sacchi e protezioni imbottite da combattimento.
Alla fine della piccola stanza, c’era una porta.
Si avvicinò con circospezione.
Attaccò l’orecchio al battente. Dall’altro lato, si sentivano ancora le urla soffocate di Sara, e poi un’altra voce, maschile, che cantava una specie di nenia incomprensibile. Come un mantra, ma stridulo.
Non c’era un minuto da perdere!
“Questo sennò, me la fa fuori”, pensò risoluto.
“E nemmeno le ho toccato ancora le tette!”, realizzò sconfortato il Commissario.
Uno, due… tre: spalancò la porta.
Al centro di una stanza rettangolare, nuda su un materassino, c’era Sara. Aveva i polsi legati dietro la schiena, ed era adagiata su un fianco.
Sulle pareti, stampe in bianco e nero, con dei parrucconi giapponesi e grossi ideogrammi. In un angolo una rastrelliera con lance e spade.
Sasuke le era di fronte.
Aveva addosso solo la giacca bianca del kimono e i pantaloni arrotolati alle caviglie.
“Pasquale! Aiutami, ti prego!”, aveva urlato Sara.
Il maestro si era voltato di scatto, fissando Iodice minaccioso: “Chi sei?!
Come osi profanare questo Dojo?!”, gli aveva chiesto indispettito.
Lo sbirro non si scompose: “Questo che?!”, domandò in tono canzonatorio.
“Il Dojo, pezzo d’asino!
Quello che stai calpestando è il Kamiza, la parte più nobile della sala!”, ringhiò.
“Me ne fotte assai, a me!”, sorrise storto il Commissario. Poi aggiunse affettato: “Forza, Sasà, fai il bravo: rimettiti i pantaloni e vieni con me. Sei in arresto per violenza sessuale, sequestro di persona e un altro paio di cose che adesso non mi ricordo, ma che poi ti appioppo di sicuro!”
Il maestro sorrise sghembo: “Violenza?!”, chiese beffardo. “Ma io le sto concedendo l’onore del mio corpo!”
Iodice lo fissò negli occhi cerulei: aveva un lungo codino e i capelli radi sulla fronte, due labbra strette e grosse orecchie a sventola. Poi abbassò lo sguardo sotto la cintura: “Beh, da quel che vedo, non è poi questo grande onore!”, rise il Commissario.
E poi – se non gliela aveva ancora data a lui, Sara – com’è che questo se ne usciva fresco fresco?!
Sasuke scalciò allora i pantaloni del kimono lontano e si mise in guardia, con le gambe nude divaricate e il piccolo sesso penzoloni: “Povero uomo!
Il Karate – disse con aria trionfale – è un’arte antica e mortale.
Posso ucciderti soltanto col potere di due dita”, si fece indietro di un passo, iniziando a fare volteggiare le mani davanti e sopra la testa, emettendo dei grodolini rapidi e acuti, come una mitraglia.
Poi si fermò.
Immobile, pronto all’assalto finale.
La tensione era palpabile.
Iodice rimase nel suo angolo, lanciò uno sguardo comprensivo a Sara, che – sul tatami – stava tremando di freddo e di paura, poi piazzo le pupille negli occhi dell’uomo, come fossero due raggi laser.
Quando questi, con un urlo spaventoso, si avventò su di lui, il Commissario tirò fuori la pistola dalla giacca e fece fuoco, facendogli saltare una rotula.
“E adesso vediamo come fai a saltare ancora di qua e di là senza un ginocchio!
Il Maestro!”, rise beffardo. “Il Karate – ammiccò – non serve a un cazzo, se ti trovi davanti uno sbirro incazzato e con la pistola!”.
Poi si avvicinò all’uomo, riverso sul tappeto che si stava lentamente imbrattando di sangue. Lo tirò su, prendendolo per il codino spennacchiato: “Mano vuota, mano vuota…
Tiè, senti quanto è più a soddisfazione una mano bella piena!”, e gli mollò una sberla che gli lasciò l’impronta incandescente di cinque dita sulla faccia.