Piccole, piccole donne

Non avrei mai dato un nome del genere a una bambina. Bernarda, Bernarda Rosa. Ma per favore, è naturale che, poi, una prende delle brutte strade: cazzo, lì la sorte ti si pianta davanti incazzata, dai!

Quando – quella mattina – Aprile era entrato in ufficio con la denuncia di scomparsa, quel nome me lo ero dovuto fare ripetere tre volte.

E ancora non ci credevo!

“Massì, Commissario.

La mamma sta ancora di là, se volete chiederglielo. La faccio passare?!”, si era baciato due dita incrociate e se le era passate sul cuore.

Mpf!

Glissai.

“E da quando sarebbe scomparsa questa ragazzina?!”, mi limitai a chiedere.

“Stamattina, alle dieci…”.

Guardai l’orologio: non era nemmeno mezzogiorno.

“Ma Cristo di Dio!”, sbottai sbattendo le palme sul tavolo. “Ma lo sai che per una denuncia di scomparsa, debbono passare almeno ventiquattro ore?!

Che ci mettiamo a correre dietro a tutte le ninfette che scappano di casa?!”

“Ma veramente…”

“Sono sicuro che si starà ammazzando di canne da qualche parte. Per non dire di peggio!

Magari, starà facendo prendere aria alla bernarda”, incrociai le braccia sul petto, con aria risoluta.

“Sì, ma questa…”

“Uffa, Aprile!

Fidati, io ci capisco di queste cose”, strizzai l’occhio. Poi ripresi con aria navigata: “Quanti anni c’ha quest’altra puttanella?!

Quattordici? Quindici?

Sempre la stessa storia… conoscono un ragazzino brufoloso e vogliono fare la grande fuga d’amore!

Con quel nome, poi… è una specie di manifesto”.

“Quattro…”, sospirò il mio secondo, guardandomi di sottecchi per una manciata di secondi.

Saltai sulla sedia, come un pupazzo a molla: “Cosa quattro?!”, quasi urlai.

Aprile annuì.

“Quattro anni – ripeté con tono da tragedia greca –. Era al parco con la mamma, si è distratta un attimo, e non l’ha vista più…”

Cazzo.

Questo cambiava tutto.

A quattro anni nemmeno ci si pensa ai ragazzi.

O sì?

Comunque, la scomparsa di una bambina di quattro anni, era tutt’altro che normale. E, soprattutto, in casi come quelli, il tempo volava.

Io lo so, le ho studiate queste cose. Oddio, non proprio, però le ho sentite dire in tv. Comunque, se passano più di dodici ore senza notizie, è facile che della piccola, non si sappia più nulla. Per sempre.

Dovevo darmi da fare.

E in fretta!

Fissai Aprile dritto negli occhi: “Fai passare la madre!”, ordinai serio, chiudendo in un cassetto l’ultimo numero della mia lettura preferita: Tv tette.

L’avevo appena aperto. Nemmeno ero arrivato allo speciale sui topless del 2014!

C’era pure una Barbara D’Urso fresca fresca, stesa su una spiaggia di Sabaudia, con, al vento, tutto quell’ambaradan che si ritrova davanti.

Roba forte, insomma.

E vabbè – sospirai deluso – c’avrei pensato più tardi a Barbarella: prima il dovere!

Aprile uscì dalla stanza e spinse dentro la donna da lì a un minuto.

Indossava un completino di cotone a fiori, a fondo rosa, poi una giacchina viola, calze velate, scarpe con la zeppa, davanti e di dietro, che dovevano alzarla per lo meno di una decina di centimetri.

Oddio, non proprio una calzatura comoda, per correre appresso a una bambina di quattro anni. Ma la moda femminile – si sa – è uno dei più grandi misteri dell’universo, dopo la scomparsa dei dinosauri.

Non doveva avere più di trent’anni – giudicai – capelli scuri e colorito modello candela.

Una bella figa, tutto sommato.

Mi alzai dalla sedia e le allungai una mano sudaticcia: “Commissario Iodice”, le dissi stringendo quella che mi porgeva e dondolandogliela per qualche secondo. Aveva la pelle morbida e liscia come burro.

“Stefania Rosa”, si presentò con un filo di voce. Aveva le guance rigate da due solchi scuri, segno che il trucco si era sciolto tutto in lacrime. “Sono la mamma di Bernardina…”, aggiunse, sganciando altri due goccioloni che percorsero la stessa strada degli altri, per suicidarsi – alla fine – oltre il bordo liscio del mento.

Sospirai di nuovo e mi sedetti, glissando per delicatezza sulla infelice scelta del nome della piccola, che l’avrebbe segnata a vita: tutti – dalle scuole medie in poi – avrebbero fatto carte false per vedere la bernarda rosa della piccola.

Ma che gli dice il cervello a certa gente?!

Poggiai i gomiti sul tavolo e incrociai le mani, quindi guardai la signora con un’espressione affabile, cortese, astuta. La mia migliore aria da sbirro navigato, insomma.

Le feci un segno e lei si accomodò su una delle due sedie piazzate davanti alla mia scrivania. Aveva una grande borsa a fiori, in tinta col vestito, da cui tirò fuori un piccolo album di foto.

Uno di quelli che iniziano con le immagini in sala parto, e finiscono con quelle davanti alla torta di compleanno. In tutte era raffigurata la figlia, una bella bimba, bruna come la madre, ma con degli occhi di un azzurro così intenso, che sembravano due piastrelle.

Tra un pianto e l’altro, la signora Stefania mi raccontò che – quella mattina – erano state a prendere una boccata d’aria al parco, a piazza Pitesti a Caserta. Lo facevano spesso, quando lei aveva la mattinata libera.

L’aria fresca faceva bene alla bambina, che soffriva d’asma e proprio questa circostanza – adesso – la stava tenendo ancora più in apprensione. Senza il suo inalatore, che era rimasto nella borsa, infatti, la piccola non sarebbe sopravvissuta a una crisi e le probabilità che ne avesse una erano maggiori in una situazione di stress come quella in cui – probabilmente – si trovava in quel momento.

Che fosse stata rapita, o si fosse semplicemente persa, Bernardina era di sicuro inerme e spaventata e questo complicava la situazione.

“E – concluse la signora, dopo un lungo cortocircuito di parole – quando l’ho vista giocare a rincorrersi con un’altra bambina, ho sorriso e mi sono allontanata un secondo, per sciacquare una mela sotto la fontanella.

Ma le giuro Commissario, solo una manciata di secondi. Il tempo di andare e venire, e la fontanella non dista più di dieci metri dal centro della piazzetta dove stavano giocando le bimbe. Però, quando ho rialzato la testa, non c’era più traccia né di Bernardina, né dell’altra bambina”. Ha iniziato di nuovo a singhiozzare forte: “Ho chiamato, ho urlato. Ho girato tutta la piazza, e poi gli isolati circostanti.

Niente”, si abbandonò esausta sullo schienale di legno della sedia.

La fissai serio: “Ha chiamato aiuto?”

“Immediatamente!

C’erano altre mamme lì attorno e qualche vecchietto a leggere il giornale. Si sono dati tutti un gran da fare, ma non è saltato fuori nulla…”

“E la mamma dell’altra bimba?!”, domandai.

La vidi abbassare gli occhi sulla scrivania e quando li rialzò restai turbato da quello che vi scoprii: tristezza, dispiacere, una terribile riluttanza. “No-non c’era nessuna mamma – rispose – nessun’altra bimba.

Si erano volatilizzate”.

Cristo!

Quella storia andava di male in peggio. Da una, le scomparse erano diventate due.

Che voleva dire?

Che stava succedendo?

Sentii il sudore che mi cascava giù dalle tempie come sciatori su una slavina.

Mi feci lasciare un paio di primi piani della bambina, sfilandoli dall’album. Ne feci fare delle fotocopie e le distribuii in giro per gli uffici. Poi salutai la donna, che saltellò via cercando di non sculettare sui tacchi.

Non ci riuscì.

Nelle prime ore di intervento, ci demmo tutti quanti un gran da fare. Tappezzammo il parco e i dintorni con dei volantini su cui torreggiava una foto in bianco e nero della piccola Bernarda. Battemmo tutti i dintorni, in un raggio di due chilometri in ogni direzione.

Mi consumai i calli, a furia di fare avanti e indietro dalla piazza.

Non ne venne fuori niente.

La bimba sembrava essersi volatilizzata.

Anzi, le bimbe, visto che, anche dell’altra ragazzina con cui stava giocando Bernardina, non riuscimmo a trovare traccia. Sapevamo solo che aveva un vestitino bianco, con i merlettini lilla sulle maniche e sul colletto, treccine bionde e una specie di cuffietta chiara piantata in testa.

Questo, almeno, era riuscita a ricordare la signora Stefania, frugando nei ricordi di quella mattina.

Non servì a nulla fino al giorno dopo, quando arrivò in Questura la notizia di altre due bambine scomparse.

Si chiamavano Vanessa e Giada – due gemelline di cinque anni – e stavano giocando anche loro in un parco pubblico, quando si erano volatilizzate approfittando di una distrazione del papà, che era andato a prendere le sigarette.

Poi dicono che non è vero che il fumo fa male!

Se ci riesco, smetto anche io.

Seee… e quando ci riesco!

Cazzo, comunque. Eravamo a meno che zero con la prima sparizione, e già se ne profilava un’altra all’orizzonte. E pure doppia.

Che sfiga!

Non sarei mai riuscito a “leggere” tutto il giornaletto, prima della fine della settimana.

Mi si sarebbero accavallati!

Invece, i quotidiani e la televisione iniziarono subito a martellare di brutto con questa storia. Parlavano di un sequestratore, se non addirittura di un serial killer specializzato in bambine. Del resto, avevamo tre, forse quattro ragazzine scomparse, e niente in mano, tranne l’uccello, quando si andava al bagno.

Se c’era tempo di andarci!

Passavo più della metà della giornata a telefono con giornalisti, mitomani, informatori anonimi e almeno otto volte al giorno il Questore, che chiamava per aggiornamenti che, ovviamente, non avevo da dargli.

Mi avevano telefonato anche le mie due ex mogli. “Ma che state combinando?”, aveva chiesto Clara stizzita.

“E se fossero state figlie tue?!”, aveva sbottato Mara.

“Ma vaffanculo!”, avevo risposto a entrambe.

Cazzo, avevo divorziato da loro, per non sentirle più sbraitare come lupi alsaziani e, tutto di un tratto, si permettevano addirittura il lusso di chiamarmi sul lavoro, per riprendere d’un colpo le “sane” abitudini della nostra convivenza?!

E no, a tutto c’era un limite.

Uscii dal Commissariato e mi infilai nella solita pizzeria, con le sedie malandate e le tovaglie di carta a scacchi bianchi e rossi. Buttai giù una pizza e un paio di birre e guardai un po’ di telegiornale da un televisore appeso in un angolo della sala. Una giornalista bionda con una profonda e invitante scollatura, stava facendo un servizio in diretta da Piazza Padre Pio, dove – proprio davanti a una statua in bronzo del frate di Pietralcina – erano state viste per l’ultima volta le piccole Vanessa e Giada.

Conoscevo già la storia, avevo sentito il padre, prima di pranzo, e non ne era venuto fuori granché, tranne che le bimbe stavano giocando con delle altre coetanee, quando – tranquillizzato dalla scena – aveva deciso di entrare un attimo nel tabacchino all’angolo per comprare un pacchetto di Merit. Ce le aveva in mano, ancora sigillate.

Non aveva avuto il coraggio di aprirle. Magari gli sarebbe sembrato di dare il colpo di grazia alle figlie, o forse voleva solo punirsi.

“Lasci fare a noi…”, gli dissi accompagnandolo alla porta. “Vedrà, che riusciremo a trovarle e riportarle a casa sane e salve”, sorrisi.

L’uomo mi guardò fisso e cercò di sollevare gli angoli della bocca. Inutilmente: un filo di bava viscosa, corse giù per il mento. Ringhiò sordo e gettò con violenza il pacchetto di sigarette in un cestino, dietro l’angolo della porta, quindi uscì come una furia.

Povero Cristo, pensai, raccogliendo il pacchetto e scrollandolo della polvere che aveva catturato nella sua breve permanenza nella pattumiera. Era intatto, del resto, e le Merit erano la mia marca. E, poi, non avevo niente da farmi perdonare io, perché avrei dovuto smettere?!

Finita la pizza, me la filai di nuovo in ufficio e – per la strada – mi fermai di nuovo in un bar di fronte al Commissariato per un caffè e una sambuca. Quindi mi accesi una delle Merit e tornai alla mia scrivania.

Ripresi a leggere il fascicolo e le varie annotazioni di servizio che si erano accumulate nelle ultime ore, che non avevano niente di nuovo da aggiungere, limitandosi a riepilogare i fatti, offrendo una ricostruzione approssimativa della meccanica degli eventi.

Il pomeriggio passò lentamente da quel momento. Diventai distratto e guardai spesso l’orologio.

Verso le cinque e mezzo, mi accesi un’altra sigaretta – doveva essere la decima, magari: ero stato parecchio nervoso – e forse fu un caso, forse no, ma dopo la prima boccata mi arrivò una crisi di tosse che mi lasciò senza fiato. Tossivo come una motozappa, sputacchiando tutto intorno, in un raggio di due metri. “Cazzo – pensai senza più fiato – mi ci vuole una caramella, o magari uno spray!”, e proprio in quel momento mi venne in mente dell’inalatore.

Cristo, come mai non c’avevo pensato prima!

“Aprileee!”, chiamai attraverso la porta socchiusa.

Niente.

“Aprileeeeee!!”, gridai più forte. “Che cazzo di fine hai fatto?!”

Vidi il mio secondo infilare timidamente la testa nella fessura tra la porta e lo stipite.

Stava masticando qualcosa.

Non mi meravigliava, si nascondeva in bagno anche per succhiare una caramella, per paura di doverle offrire, lo spilorcio.

Sorvolai.

“Hai finito di grattarti le palle?!”, sbottai acido.

Allargò la porta e si piantò a piedi uniti in mezzo alla stanza. Annuì deglutendo. “Comandi!”, biascicò.

Lo fissai stizzoso: “Senti una cosa, le abbiamo controllate le farmacie in zona?”

Aprile allargò prima la bocca, poi gli occhi. Poi strinse il culo: “Farmacie?”, ripeté a rallentatore.

“Ma devo dirvi tutto io?!”, saltai sulla sedia.

Continuò a guardarmi con quell’espressione ebete stampata sulla faccia.

“Bernardina – ripresi con tono più calmo – la prima ragazzina scomparsa, soffriva d’asma e non aveva con sé l’inalatore. Ora – lo fissai serio – se ci troviamo di fronte a un serial killer, allora che sia morta con l’asma o col coltello, a lui poco importa. Magari gli ha fatto pure risparmiare tempo”, sospirai abbassando gli occhi.

Li rialzai quasi subito: “Ma metti che ci troviamo di fronte a qualcuno che non ha interesse a uccidere le bambine, qualcuno che ha bisogno che rimangano in vita, che sia un giorno, una settimana o un mese.

Metti – che Dio mi perdoni – che ci troviamo di fronte a una stramaledetta banda di pedofili, o un traffico di adozioni illegali, o – sospirai ancora – un commercio d’organi.

Beh, in tutti questi casi, chi ha rapito la bambina, vuole che stia bene, che viva. Fino alla consegna, almeno”.

Ripresi dopo una breve pausa: “Ora, Aprì, abbiamo una possibilità su due, ma dobbiamo provare…”

Aprile annuì. Magari aveva capito, magari no. Solo Dio può saperlo. “Come dobbiamo procedere?”, chiese, alla fine, strofinandosi le mani.

“Battete a tappeto tutte le farmacie: prima quelle vicine al luogo del rapimento, poi le altre, fino ai paesi confinanti.

Se ha colpito di nuovo questa mattina, non può essersi allontanato di molto. Magari è proprio qui in zona, e se la ride sotto i baffi.

Cercate tutte le ricette e gli acquisti di inalatori, corticosteroidi, insomma, tutto quello che cura l’asma, tra ieri e oggi.

Vediamo che ne esce…”.

Vidi il mio assistente uscire di corsa, senza salutare. Cazzo, sembrava davvero un segugio sulle tracce della sua preda. Non ce l’avrei fatto, così determinato.

A volte la gente riesce ancora a sorprendermi.

Insomma, la ricerca durò tutto il resto del pomeriggio, e buona parte della serata. A mezzanotte suonata, una telefonata mi raggiunse che sonnecchiavo in ufficio.

Era Aprile.

“Ci siamo Commissario, abbiamo due indirizzi!”, mi annunciò tutto soddisfatto.

Il primo, era di una vecchia insegnante in pensione. Aveva quasi ottant’anni e l’esenzione totale dal ticket. Aveva ritirato un flacone di Ventolin, proprio il giorno prima. O, almeno, così diceva la copia della ricetta medica. Abitava a Caserta, proprio a due passi dalla Questura.

L’altro nominativo era quello di un tizio di Mondragone, un perito informatico che aveva acquistato un inalatore proprio quella mattina in una farmacia di Caserta, che – cazzo! – affacciava dritta dritta su Piazza Pitesti. Aveva pagato con la carta, per questo avevamo nome e indirizzo.

Che tonto!

Era fottuto.

Avevamo svoltato: era lui, il rapitore. Ne ero certo. Perito informatico significava computer, telefonini, internet, pedopornografia.

Preparati, bello, stai per essere deflorato dal cazzo violento della legge!

Te lo faccio io, adesso, il filmino.

Depravato.

Afferrai la cornetta con forza, quasi la sentivo scricchiolare contro l’orecchio: “Avverti gli uomini, arrivo subito. Tutti pronti al mio via!”

Sentii Aprile esitare dall’altro capo del filo. “Ma, veramente…”

“Che c’è Apri’?!”, ringhiai.

“Veramente, Commissario, noi siamo già in macchina, e prima che arriviate voi, ci vorrà almeno mezz’ora, anche con le sirene”, sibilò.

In sottofondo, si sentiva l’autoradio della volante gracchiare ordini incomprensibili e le ruote stridere a tutta velocità sull’asfalto consumato.

“E allora?”, chiesi alzando un sopracciglio.

“E allora, non pensate davvero che non possiamo aspettare il vostro arrivo?

Che non c’è tempo da perdere, insomma…

Tanto c’è qui con noi il Vice Commissario Audino. Lui ha esperienza, in queste cose, ha lavorato anche con la DDA!

Ha detto che noi iniziamo l’irruzione, appena siamo sul posto, e poi voi ci raggiungete con calma.

Intanto, se proprio volete dare una mano, potete passare a dare un’occhiata a casa della vecchietta, la signorina Pastorelli.

Insomma, ha detto Audino che non si sa mai, e che controllare anche là, non ci costa nulla”.

Guardai il telefono con aria severa, come se mi avesse appena tirato un paio di sberle. Poi strinsi anche più forte la cornetta e sbottai con tutto il fiato che le sigarette m’avevano lasciato in gola: “E da quando in qua, è quel coglione di Audino a dare gli ordini, eh?!”

La voce di Aprile fu risucchiata nella cornetta, per ripresentarsi qualche secondo dopo, più mielosa, ma meno impacciata: “Beh, Commissario Iodice – disse edulcorando le parole – gli ordini li date voi, e solo voi. Però, se aspettandovi arriviamo tardi, e magari alle bambine capita qualcosa in questa mezz’ora, sarà vostra pure la responsabilità. Così ha detto Audino!”

Giuda.

Farisei.

Gente di mmerda, insomma.

“Va bene – capitolai masticando amaro – iniziate senza di me. Io faccio un salto dalla vecchia e arrivo. Dammi l’indirizzo”, sospirai.

Tanto, sarebbe arrivata la resa dei conti.

Arriva sempre.

Aprile mi sciorinò l’indirizzo, che mi appuntai sull’angolo di una richiesta di porto d’armi. Strappai l’appunto, e gettai la richiesta nel cestino. Tanto, avevo già deciso di rigettarla. Non mi piaceva la faccia ritratta nelle fototessere allegate alla domanda.

Aveva gli occhi da ladro.

Scesi da solo in garage e presi l’auto di servizio per posarla – cinque minuti dopo – sotto un palazzo a quattro piani a duecento metri, in linea d’aria, dalla Questura, che si distingueva anche da là, per le grosse bandiere, italiana e comunitaria, che sventolavano sull’ingresso.

Non avevo molto tempo, dovevo sbrigare la cosa velocemente, e poi correre a Mondragone, per non lasciare a quei bastardi rinnegati dei miei sottoposti, tutto il divertimento e la gloria del successo.

Scesi dall’auto e feci appena in tempo a farmi di lato, prima di essere investito da uno scooter. “Chi t’è muorto!”, ebbi appena il tempo di urlargli, ma era già ben oltre la curva e la portata dei miei insulti.

Alzai lo sguardo sulla facciata: il palazzo aveva almeno una decina di appartamenti. Chissà qual era quello giusto.

Mi infilai sotto al portone e mi misi a studiare con attenzione i nomi sul citofono. “Margherita Pastorelli, eccolo qua!”, esclamai alla fine con soddisfazione. “Professoressa d’inglese – secondo piano”, c’era aggiunto a penna, sotto il nome.

Per fortuna il portone era aperto e non mi toccava bussare. Meglio: l’effetto sorpresa, fa parte del mestiere, come la pistola e lo sguardo da killer.

Mi buttai nell’atrio. Sulla sinistra c’era una guardiola vuota, sulla destra un vecchio ascensore, di quelli con le ante di legno e il vetro smerigliato. Faceva paura solo a guardarlo: già mi vedevo precipitare in cantina, in una nuvola di polvere grigia, così – piano piano – mi misi a salire gli scalini, rimandando a memoria la rappresaglia che, l’indomani – a caso risolto – avrei messo in pratica contro Aprile e Audino.

Ho una memoria d’elefante, io, quando si tratta di vendicarmi. Cazzo!

Arrivai al secondo piano praticamente col cuore in gola, la pancia che debordava sopra la cinta e un pezzo di camicia che era volata fuori dai pantaloni.

Mentre riprendevo fiato, a grosse boccate, ne approfittai per tirarmi su i calzoni e guardarmi intorno: c’erano due porte ai lati del pianerottolo, ma nessuna delle due aveva un nome sulla targhetta. Mi avvicinai alla prima e lisciai la maniglia come fosse il gatto di casa.

Stavo per suonare il campanello, quando alcune risate infantili, catturarono la mia attenzione. Girai la testa di scatto, come un pupazzo.

Fissai incuriosito l’altra porta.

Smisi di respirare, per catturare ogni rumore.

Non ce ne fu bisogno, in realtà. Dall’appartamento – adesso – veniva un baccano d’inferno. C’era un’aria allegra, come se stessero festeggiando un compleanno. Sentivo il vociare dei bimbi e le sigle dei cartoni in sottofondo.

Guardai l’orologio: era passata l’una di notte.

“Chi cazzo festeggia il compleanno di un bambino all’una di notte?!”, mormorai a denti stretti.

Avvicinai l’orecchio al battente del portoncino.

Si sentiva il Coccodrillo come fa?

Mi vennero i brividi.

Odiavo quella canzone… mi ricordava le vacanze di quattro anni prima in Puglia, in un Villaggio Valtour, con la baby dance da un lato, e quella rompicoglioni di Mara – la mia ex – dall’altro, che ciarlava di unghie finte e di abbronzanti.

Un incubo.

I quindici giorni più brutti della mia via!

Stetti ancora qualche secondo ad ascoltare come cazzo faceva il coccodrillo, poi decisi di bussare. Tre trilli acuti, a qualche secondo l’uno dall’altro.

Niente.

Altri tre.

Ancora nessuno alla porta, però – dentro – avevano spento la musica.

Poggiai di nuovo l’orecchio a ventosa sulla porta, all’interno rumore di passi e gridolini soffocati.

Suonai di nuovo: “Aprite, Polizia!”

Non funzionò.

Rimasi a guardare il legno ancora una manciata di secondi, poi presi il coraggio a due mani e – con una piedata numero 45 – buttai a terra il vecchio portoncino. Per fortuna, non era blindato, altrimenti, c’avrei lasciato il piede e anche un pezzo di ginocchio.

Dentro odore di chiuso, di stantio. Mobili vecchi, ma senza nessuna velleità. Non antichi o pezzi d’antiquariato, vecchi e basta.

La casa era in ordine, ma un ordine strano.

Finto.

Mi ritrovai in un piccolo soggiorno. L’ambiente era freddo e buio e un intenso odore di muffa emanava dalle pareti, dai mobili, dai quadri, dai vecchi e scuri tendaggi, ormai irrigiditi come pelli di capra mummificate.

Dentro aleggiava odore di passato e di gente che non era più viva.

Chiamai a gran voce: “Ehy, di casa!

Signorina Pastorelli?”

Nulla, sembrava che tutta la caciara di poco prima, fosse stata inghiottita dallo sciacquone. Dentro adesso regnava una calma infinita, un silenzio d’attesa.

Attraversai il soggiorno ed entrai nella prima camera che trovai alla mia destra. Lì dentro l’odore di stantio che si avvertiva in tutto il resto dell’appartamento era molto meno pronunciato. C’era una scrivania da bambini, in un angolo, coperta di libri e di qualche fumetto. Giocattoli sulle mensole e due lettini, piccoli e bianchi, in mezzo alla stanza.

Sopra – a capo letto – un cuore di seta per parte, ricamato all’uncinetto e al centro due nomi: Meg e Jo, con un tratto corsivo leggero, di filo rosa. Non c’era nessuno, sopra i letti, ma le lenzuola erano sfatte. Toccai il materasso: caldo, come se qualcuno si fosse appena alzato.

“Chi c’è qua?!”, chiamai ancora, cercando di orientarmi nella penombra.

Nessuno.

Uscii di nuovo in corridoio e imboccai un’altra porta, dove altri due lettini erano stati riservati a Elizabeth e Amy, come annunciavano i cuoricini all’uncinetto attaccati alla parete. Anche qui, i letti erano sottosopra.

“Che cazzo significa?!”, sibilai.

“Professoressa?

Professoressa Pastorelli!”, sbottai.

Non c’era anima viva.

Uscii di nuovo e raggiunsi l’ultima camera prima della cucina, che si stagliava sullo sfondo, illuminata dalla debole luce della cappa. Sul tavolo, un paio di bottiglie di coca e una torta mangiata a metà.

Entrato in camera, rimasi colpito dal letto a baldacchino, che si ergeva al centro della stanza. Era coperto da decine di bambole e cuscini di pizzo. Sul pavimento c’era un tappeto morbido e scuro. Altre bambole e animaletti di peluche sul davanzale della finestra e sulla sedia a dondolo.

Mi avvicinai. Un brivido mi corse lungo la schiena. C’era qualcuno sul dondolo, ma era immobile.

Corsi alla finestra e tirai su la tapparella verde, permettendo alla luce lunare di entrare in casa.

Mi trovai di fronte la faccia livida della signorina Pastorelli. Mi avvicinai, ignorando il tremolio convulso delle narici.

La vecchia professoressa era adagiata sul dondolo, con la schiena eretta e i capelli grigi raccolti in uno chignon. Aveva un vestito scuro, di velluto, che la fasciava fino alle caviglie e un merletto bianco annodato attorno al collo. Bianco come le sue labbra.

Sembrava una bambola di cera.

La toccai: era fredda come il culo di un pinguino.

Insomma, avete capito: era morta!

Morta stecchita, eppure bardata come se dovessero farle una festa, invece del funerale.

Sentii un fruscio alle mie spalle. Mi voltai di scatto, urtando la sedia col ginocchio.

Non c’era nessuno, solo decine di paia d’occhi di vetro, ma – intanto – con la botta che avevo dato, il dondolo aveva preso ad oscillare avanti e indietro come un impiccato, cullando la vecchia come se stesse dormendo. Una ciocca di capelli grigi e stopposi, al lato dell’orecchio, dondolava in perfetto sincrono con la sedia.

Scrutai il buio alle mie spalle.

Niente.

Solo bambole su bambole, ammassate sul letto. Grandi, piccole, bionde, more. Vestite in jeans, o con ingombranti completini di pizzo e macramè.

Sembravano vive.

E tutte a fissarmi.

Mi venne una fitta dietro l’orecchio, e strinsi forte le chiappe.

Non mi andava di restare lì dentro, con quella mummia vestita a festa, e magari avrei anche dovuto affrettarmi a chiamare dei rinforzi, ma – cazzo – non ci vedevo per niente chiaro in quella storia.

Dov’erano i bambini che avevo sentito gridare? Che fine avevano fatto?

Che fine aveva fatto la festa?

Bah!

Più ci pensavo, e più mi puzzava.

E no – per inciso – non era la vecchia a puzzare. Non di cadavere, insomma. Di naftalina, forse, e magari di colonia scadente, ma non di morte.

Sembrava imbalsamata.

E sembrava pure un lavoro ben fatto!

Insomma, mentre stavo ammirando il lavoretto fatto sulla prof, chino sulla sedia a dondolo, sentii un fruscio sul letto alle mie spalle, come se le bambole si muovessero tutte assieme, poi – subito dopo, senza neanche darmi il tempo di voltarmi – una fitta al calcagno, e caddi.

Bum!

Caddi a terra, come un sacco di patate.

Per non dire peggio.

Alzai gli occhi, contorcendomi per il dolore.

Un gremlins vestito di tulle, mi saltò improvvisamente addosso come un piccolo demonio: “Lascia stare la mamma! Lascia stare la mamma!”, continuava ripetere, agitando in aria un bisturi. Aveva la lama sporca di sangue. Non mi ci volle molto a capire che era il mio: quella piccola figlia di puttana m’aveva reciso un tendine, e il piede ciondolava disarticolato in cima alla caviglia. M’aveva pure rovinato i calzini – merda! – l’ultimo paio senza buchi che m’era rimasto.

La fissai negli occhietti impauriti, sotto due treccine bionde: “Piccolina, non preoccuparti, sono qui per aiutarti. Vieni qua, dammi un bacetto!”, dissi con voce mielosa. Ma la bambina, per tutta risposta, mi menò un altro fendente col bisturi, che mi lasciò un lungo squarcio sul palmo della mano. “Figlia di puttana!”, sbottai, stringendo forte lo squarcio con le dita della mano sana.

“Che ti salta in testa?!

Io sono un poliziotto, io ti arresto!”, la minacciai. Di solito, coi bimbi, funziona.

“Tu non sei un poliziotto, tu sei un sudista!”

“Un su-che?!”

“Un sudista!

Hai ucciso papà, e adesso vuoi prendere anche me e le mie sorelline, e dividerci dalla mamma”, piagnucolò, agitando la lama nella penombra.

Di che stava parlando?

Quali sudisti?!

Oddio, sono nato a Casandrino, ma mica ce l’ho scritto in faccia di essere del Sud?!

Provai a tranquillizzarla: “Ma no, non voglio dividere nessuno, sono qui per aiutarvi… dimmi dove stanno le tue sorelle. Vi porto tutte e quattro in una nuova casa, più bella, più grande”, sospirai.

Mi faceva male il piede, e la mano continuava a sanguinare come una fontanella. “La mamma – vedi? – non si sente bene, chiamiamo un dottore…”

Si raddrizzò sulla schiena, le mani nei fianchi: “No-no-no-no!

Noi non ci muoviamo di qua. Io, la mamma, e le mie tre sorelle!”

Mi venne un dubbio: “Come si chiamano le tue sorelline, bella bambina?”

“Meg, Elizabeth e Amy!”, sputò.

“E tu tesoro?”, sorrisi.

“Jo!”, sputò tra i denti.

Cazzo.

Ero finito in una replica di Piccole Donne, e mi era capitata la più cazzuta delle quattro!

Avevo visto il film, una volta, e sapevo quello di cui stavo parlando.

Mi si avvicinò minacciosa: “La mamma mi leggeva sempre il libro… sapevo che prima o poi saresti venuto a rapirci, brutto sudista!”

Cazzo.

Ancora ‘sta storia del sudista. Ma che gli hanno fatto di male a questa?

Ma sarà una bambina leghista?

La nipotina di Bossi?!

Cercai di riflettere: Che avrei dovuto fare?

Guardavo la lama avvicinarsi, lentamente, come un treno sui binari.

E io?

Avevo la pistola in tasca, sotto l’ascella. Avrei potuto tirarla fuori, ma…

Ma, come si può uccidere un bambino?!

Si avvicinò.

Era a meno di un metro.

Mezzo.

Venticinque centimetri…

Respirai profondamente. Mi rannicchiai in posizione fetale, tremavo come una foglia, sanguinavo, pure. Chiusi gli occhi… poi esplosi, mollandole un ceffone con la mano sana: “Ma vafancul’ tu e mammeta!”, sbottai.

La vidi rotolare su un lato.

La testa le partì.

Cazzo!

Che castagna!

Una serie di urletti, partirono da sotto il letto, seguiti da un piagnucolio soffocato.

Mi alzai a fatica, trascinando il piede.

Mi abbassai sulle trecce bionde: no, non era la testa che le era schizzata via. Quella – calva, col riportino penzoloni – era ancora attaccata al corpo.

Era una parrucca.

Una parrucca bionda!

Mi avvicinai al corpicino: “Jo, Jo, svegliati!”, dissi, strattonandolo.

Jo – o come si chiamava il piccolo uomo che mi trovavo di fronte – era svenuto.

Ho un pugno micidiale, quando voglio.

Mi affrettai ad allontanare il bisturi e – con un cordone delle pesanti tende di velluto – gli legai mani e piedi, prima che si svegliasse.

Le bambine rapite, le ritrovai sotto il letto.

Il nanetto che credeva di essere una delle Piccole Donne del romanzo, gli aveva intimato di non muoversi, che altrimenti gli uomini cattivi le avrebbero prese, portate via e fatto male. Molto male.

Era riuscito a rapirle al parco, il giorno prima, fingendosi una bambina.

O almeno, era quello che aveva sempre creduto di essere: figlio illegittimo e per di più affetto da nanismo, era sempre stato chiuso dalla mamma in quel piccolo museo che era la loro casa, per decoro, per vergogna.

Bah, vallo a capire!

Quando – poi – la vecchia era morta, qualche mese prima, era scivolato sempre più a fondo nella follia, fino ad identificarsi con la più ribelle delle sorelle Ward. Il romanzo che, tutte le sere, la mamma gli leggeva nel letto, per farlo addormentare.

Piccole Donne, la vita che aveva sempre desiderato. Gioia, risate, persone con cui condividere sogni e aspirazioni.

Rimettere su la famiglia, perciò, era stata l’idea delle ultime settimane, quando – imbellettando la mamma come una statua – si era illuso di poterla tenere per sempre con sé, nascosta al mondo, come fin’ora lo era stato lui. Aveva preparato i lettini, i vestitini, e poi – fingendosi una bambina – era riuscita a portarsi dietro le altre tre bimbe.

Non sapeva che una soffrisse d’asma, e – quando era stato necessario recuperare un farmaco per Bernardina – aveva dovuto improvvisare, fingendosi con la farmacista, la nipotina della signorina Pastorelli.

Chiamai Aprile al telefono: “Tornate a Caserta”, intimai.

“Ma, Commissario… siamo già in posizione… non possiamo aspettarvi.

Vi assumete voi la responsabilità?

Audino ha detto…”

“Sei uno stronzo tu e Audino!

Le bimbe stanno qua, stanno bene. Lasciate stare quel povero Cristo di Mondragone, e tornate a Caserta!”, sbottai.

Sentii tutta la sua sorpresa in un singhiozzo soffocato: “E porta i cerotti!”, appesi la comunicazione.